“Bisogna agire per le riforme, prima fra tutte la riforma del mercato del lavoro”. Anche nel messaggio di lancio per la propria campagna elettorale, il premier uscente Mario Monti ha dato fondo all’armamentario del piccolo liberista, annunciando mirabolanti e numerosissime riforme ed attaccando preventivamente con accuse di conservatorismo tutti coloro che a quel vangelo si fossero opposti.
Ed è da trent’anni che ci tocca ascoltare e ballare su tali note: “c’è bisogno di più flessibilità nel mercato del lavoro”, “le tutele anacronistiche debbono cessare”, “solo migliorando ed incrementando le forme contrattuali di impiego dei lavoratori è possibile generare crescita ed occupazione”. Trent’anni in cui, però, di quegli incrementi ne abbiamo visti tanti, troppi (e sarebbe facile quanto scurrile misurare in gradi goniometrici l’indice di flessibilità a cui un certo padronato vorrebbe portare i lavoratori), mentre della terra promessa della crescita dell’occupazione e del reddito nemmeno l’ombra. Anzi, anche l’altro dei capisaldi dogmatici della fede liberista nella riforma del lavoro, l’incremento della produttività, è stato solo un miraggio mai raggiunto. Dall’inizio degli anni ottanta, in Europa ma anche nel resto del mondo occidentale ed in Giappone, la flessibilità precaria dei lavoratori è cresciuta in termini esponenziali ma, contemporaneamente, è calata l’occupazione, la ricchezza, i redditi dei lavoratori ed anche gli indici di produttività del lavoro.
Questa folle ricerca della flessibilità e le infinite e vane fatiche di Sisifo a cui i lavoratori si sono sottoposti nello scellerato, quanto obbligato, tentativo di seguire l’onda delle riforme per le riforme, è stata per un trentennio la traccia su cui (almeno nel mondo occidentale, perché per l’oriente andrebbe fatto un discorso a parte e sostanzialmente opposto, date le condizioni di partenza) si è svolta la storia dell’economia e della politica.
Una flessibilità che quasi fin da subito s’è mutata in precarietà, con un mutamento di paradigma della società che ha ben presto coinvolto anche altri aspetti del vivere quotidiano e delle aspettative dei lavoratori: l’accesso alla pensione e la portata delle prestazioni di quiescenza, l’assistenza sanitaria e tutto l’apparato del welfare pubblico ed universale, la fruizione dei beni primari e dei servizi essenziali. Il concetto di precarietà ha coinvolto in pieno un po’ tutti questi settori, rendendo insicura ed incerta ogni manifestazione umana e sociale, fino a prevedere (le parole di Monti e di altri liberisti d’alta scuola come lui più volte l’hanno sottolineato) l’impossibilità di sostenere a lungo gli attuali livelli di stato sociale.
Dalle grandi crociate contro i garantiti della fatica (perché proprio non saprei chiamarli diversamente i minatori presi di mira dalla Thatcher negli anni ottanta o gli operai di Mirafiori contro cui si scatenò l’ira funesta della maggioranza silenziosa, funesta anche per quella stessa maggioranza) fino ai giorni nostri, ogni singolo brandello di quello che era e sembrava il portato delle conquiste delle lotte dei lavoratori è stato aggredito, delegittimato, avvilito, umiliato, offeso ed infine, smantellato, svenduto, eliminato. Il risultato di tale interminabile battaglia campale del capitale contro i diritti dei lavoratori e la società? Beh, lo avete sotto gli occhi tutti i giorni: disoccupazione, crescita delle disuguaglianze, diminuzione dei diritti, delle prospettive e delle aspettative di chi vive solo del proprio lavoro.
Uno studio del parlamento inglese, uno dei primi e più avanzati Paesi sulla strada dello smantellamento progressivo dei corpi sociali organizzati, si concludeva con una tesi che, in fin dei conti, sembrava suggerire ai lavoratori, quale metodo per sopravvivere ai tempi moderni: “lavorate di più, risparmiate di più, imparate a volere di meno”. Il fatto paradossale è però che gli stessi parlano di crescita come unica soluzione dei problemi economici; con quelle tesi poste a base del ragionamento, francamente, è una follia ipotizzare di poter crescere.
In questi anni si è anche scoperto che è calata la produttività e la fedeltà al datore di lavoro. Ma no? Ma non mi dite? Il padrone mi promette un lavoro a chiamata per un giorno ed io non gli garantisco fedeltà a vita e non mi spezzo la schiena per lui? Che ingrato!
Così come studi psichiatrici dimostrano che sono in crescita fenomeni paradepressivi come l’accidia. Anche qui lo stupor m’assale: non ho speranze di stare meglio e di migliorare la mia posizione, eppure non dedico tutta la mia vita al lavoro pagato tre euro l’ora nella friggitoria del fast food? Non sono proprio in grado di dire grazie!
Più di una volta ho scritto di come a stupirmi sia il contrario, il fatto che ancora ci sia qualcuno ad impegnarsi responsabilmente nel lavoro a forfait, sottopagato e non garantito. Non m’aspetto rivoluzioni imminenti, nemmeno che le masse s’elevino al suono d’un “no” resistente, di sartreiana memoria. Ma non mi stupisco che si diffonda un flebile, prosaico e molto più contagioso “preferirei di no”, che l’insegnamento dello scrivano di Melville faccia sempre più proseliti verso una reazione solitaria e pure comune, che la voglia di cambiare le regole del gioco venga sostituita dall’apatia d’uno spettatore annoiato, che al massimo cambia canale.
Lavoreremo 40 anni da precari, se va bene avremo come pensione l’equivalente del 40 per cento dei bassi stipendi con cui ci pagano, e nel frattempo ci avranno tolto anche la sanità pubblica ed universale, costringendoci a sottoscrivere assicurazioni che non potremo pagare o a pesare sulle spalle di figli troppo giovani perché avuti in tarda età e già gravati dai debiti contratti per garantirsi un’istruzione. Possibile che con tali aspettative non ringraziamo tutti i giorni la società per farci vivere nel migliore dei mondi possibili?
Davvero, cambiare le regole ed il gioco è l’unica alternativa che ci rimane. Le altre, sono quelle che abbiamo già provato lungo la strada che ci ha portati fin qui.