I ricorsi: ovvero, del trionfo della tecnica e della fine della politica sindacale

Dovranno essere assunti i 145 operai lasciati a casa nel passaggio dalla vecchia gestione dello stabilimento Gian Battista Vico alla newco FIP, Fabbrica Italia Pomigliano, società creata da Fiat solamente per disapplicare il contratto nazionale. Lo stabilisce la Cassazione, che accoglie il ricorso della Fiom. Il motivo? Presto detto. Quegli operai, secondo la Fiom ed ora anche secondo la Repubblica Italiana, sono stati volutamente esclusi dall’elenco degli assunti perché avevano in tasca la tessera del sindacato metalmeccanici della Cgil.
Ora, ovviamente, ci si può aspettare di tutto da parte di Fiat per evitare l’assunzione. Alcuni operai dello stabilimento campàno già raccontano di minacce di infinite pene per i neo assunti o di atti di terrorismo psicologico sugli altri, del tipo “dentro 145 della Fiom, fuori altri 145 di sindacati firmatari del contratto”, per isolare quei lavoratori ancor prima che entrino. Speriamo che il gioco sia scoperto, e che la civiltà del lavoro e del diritto si dimostri più forte della barbarie scatenata dai rapporti di forza deregolati che vorrebbe il verbo industriale odierno. Sarebbe bello, infine, che tutti i sindacati, firmatari del contratto o meno, i partiti politici e quanti si oppongono a questa jungla chiamata “modernità”, il giorno dell’ingresso degli operai in fabbrica, come avveniva per gli studenti di colore negli Usa degli anni ’60, accompagnassero nel rientro quei 145 operai ingiustamente non assunti dalla fabbrica in cui hanno lavorato per anni.
Sarebbe bello, ma dubito succederà.
Approcciandoci però con uno sguardo più ampio, e non solo relativamente ad un caso specifico, al fenomeno dei ricorsi alla giustizia per questioni inerenti la generalità dei rapporti di lavoro, se da un lato essi rappresentano l’unico strumento ancora in mano ai sindacati per fare opposizione alle regole, dall’altro, e forse proprio per il loro essere ultima chance, segnano un limite per la politica sindacale. Anche se trionfalmente istruiti e condotti, i ricorsi possono rappresentare l’acme della tecnica delle relazioni sindacali, del riuscire a spuntare condizioni migliori ed ottenere risultati insperati. Ma al contempo, per il doverci ricorrere, simboleggiano meglio di tanti saggi e studi la fine dell’azione politica delle organizzazioni dei lavoratori.
I ricorsi Fiom contro la Fiat, come la grande stagione “ricorsuale” inaugurata dall’Anief contro il Miur, prendono le mosse dal riconoscimento di una sconfitta: quella delle capacità di mobilitazione e lotta per determinare i processi economici e gli equilibri fra parte datoriale e lavoratori. Se non posso più determinare politicamente il mio destino di lavoratore, se con la lotta o la mobilitazione non riesco a cambiare e migliorare la mia situazione, se mi scontro con delle leggi che tu datore di lavoro ispiri, caso Fiat, o che sempre tu datore di lavoro direttamente redigi, caso Miur, e quindi la lotta è impari, non posso che non tentare di colpirti col proietto della fionda, da distanza di sicurezza ed al riparo d’altre leggi. Quindi, se è nelle leggi e con le leggi che tu datore di lavoro cerchi di imbrigliare e smontare la mia azione, allora io lavoratore e sindacato, affino la mia tecnica e reagisco con gli strumenti della legge.
Ma è reazione, appunto, mentre al movimento dei lavoratori dovrebbe essere data l’azione. È la certificazione paradossale ed ossimorica di una solitudine collettiva, della sostituzione della forza sindacale, fatta di condivisione ed azione comune, con la violenza della richiesta revanscista individuale, singolarmente intesa e singolarmente esplicata, anche se sotto l’egida di un sindacato. E come se, quasi al pari dell’impiegato/bombarolo deandreiano, non riuscendo a mettere in campo la forza della rivoluzione ci si accontentasse del tentativo di far saltare in aria il banco del sistema.
Una reazione comprensibile, non lo nego, ed anche, in un certo qual senso, giustificabile e giusta. Ma, ripeto, una reazione. Il discorso sarebbe lungo da fare, risalendo alle origini della metamorfosi dei sindacati. Le ragioni sarebbero da cercare in quell’idea balzana per cui un sindacato non può non firmare un contratto, espressa diverse volte da alcuni leader sindacali, per cui un cattivo accordo è sempre meglio di nessun accordo, per cui la concertazione è fine e non mezzo, per cui, per cui, per cui…alla fine ci si accontenta di vedere le rappresentanze dei lavoratori ridotte, nella migliore delle ipotesi, a fornitori in outsourcing di servizi dello Stato, dalla compilazione dei modelli per la richiesta di assegni famigliari alle pratiche per accedere ai sussidi di disoccupazione.
In tutta questa mutazione, va detto, i sindacati spesso ci hanno messo del loro, vedendo la trasformazione in agenzie di vendita di servizi ai cittadini sostenute dalla fiscalità generale, i Caf, un modo per sopravvivere a sé stessi (e da alcuni burocrati sindacali anche per sopravvivere in senso letterale), in un mondo che sembrava aver archiviato la stagione dello scontro di interessi fra lavoratori e parte datoriale ed essersi incamminato – a passo lento ma deciso, come quello emblematico dei quadri Fiat in quella autunnale Torino del 1980 – verso una totale, perfetta e definitiva convergenza di intenti ed aspettative.
Oggi scopriamo che così non è, che così non è mai stato, che quella che sembrava la soluzione di una controversia era solo un altro modo in cui i padroni volevano condurre la lotta di classe, che, per citare il potente e facoltoso finanziere Warren Buffett, “c’è ancora e la stanno vincendo i ricchi”.
E per combattere la lotta di classe, davvero si può pensare di farlo a colpi di ricorsi e sentenze?

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