Quei volti su cui scivola l’empatia

E' da un po' che considero un aspetto, o meglio un’impressione legata a quanto quotidianamente apprendiamo a proposito di tutte le cronache delle feste a casa di Berlusconi: l'impossibilità di sentire empaticamente dolore per quelle giovani vite al mercato della carne e delle donne reificate.
Forse è solo un limite personale, ma proprio non riesco a sentirmi “preso”, colpito come sarebbe giusto che fosse da quelle evidenti miserie, rese ancora peggiori dalla sfrontatezza con cui la ricchezza delle cose cerca di giustificare la pochezza delle vicende umane.

O forse è proprio per il brillare di broccati e stucchi dorati che quel sentimento mi è impedito.
Cerco di spiegarmi, chiedendo indulgenza per le imprecisioni e le forzature.
Giorni fa leggevo un intervento di Lorella Zanardo, l’autrice de Il corpo delle donne, nel quale puntava l'attenzione sulla necessità di approfondire la riflessione "su cosa significherà a livello simbolico e relazionale la scomparsa del Volto, che è il luogo per eccellenza dove la pietas si manifesta e dove è scritta la nostra storia". Ecco, credo che questa possa essere una chiave di lettura per quel non-sentimento, per quel senso di totale estraneità che provo nel rapportarmi a quelle facce, a quei non-volti.
Mi lascerete passare l'indurimento della coscienza, ma di quelle vicende proprio non riesco a sentirmi partecipe. Non parlo ovviamente delle sceneggiature e delle coreografie che ai piani inferiori della villa del sultano erano allestite per il sollazzo suo e dei suoi ospiti; e come si potrebbe essere partecipi dello scadere in basso definitivamente disperato della nostra classe di governo.
Parlo del sentirmi partecipe del dramma di ragazze fatte merci in cambio di vane ricompense; vedo l'offesa, ma non provo dolore e commozione per le vittime. 
Perché?
Forse per la scomparsa dei “volti” che esprimono la pietas e narrano la storia di  ognuno, come accennava la Zanardo. Non che siano letteralmente spariti, anzi: da tutti i media fanno capolino ed invadono la nostra vita. E' che quei volti non narrano più nulla, non spiegano niente dei vissuti e dei sentimenti che hanno dietro.
Quelle facce, quei visi, sono l'iconografia del mondo falso. Tutti uguali nella loro anonima bellezza, ci spiegano come si è quando si vince, come si appare alla vetta, lì dove, come spiegava il cortigiano d'eccellenza di questa storia, Lele Mora, "facciamo sempre festa e siamo sempre allegri".
Già, l'allegria. Quell’imperturbabile attimo congelato, quella porzione di vita amplificata e rimandata all’infinito, santificata dal fondotinta e dalla chirurgia plastica. E chi può com-patire il volto dell'allegria, chi può entrare in empatia con la pelle che non invecchia e non cede a tempo e malattia, come sembra narrarci quotidianamente il viso-maschera del profeta della felicità interminabile, dell'artefice primo del mondo di plastica, dell'uomo che è riuscito a far sparire le uniche immagini in cui pareva umanamente colpito dal dolore, quelle del suo volto insanguinato in Piazza San Babila lo scorso anno.
Il grande comunicatore ha fatto scuola: comunicate l'idea di vittoria, e vi daranno dei vincenti. Ora, nel momento della miserrima sconfitta umana, perché i perdenti dovrebbero provare pietà?
Perché dovremmo ora com-patire chi non solo non ha voluto patire insieme le sorti dei meno fortunati, ma nell'immagine rimandata attraverso lo specchio del loro mondo irrideva con visi in plastica il dolore dei perdenti della gara truccata?

 

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