Quando si può solo reagire “da soli”

Un dipendente licenziato torna sul luogo di lavoro e spara al suo ex dirigente; sempre più operai salgono sui tetti; alcuni lavoratori sequestrano i loro manager; troppi giovani disoccupati decidono di togliersi la vita: drammi della disperazione li chiamano i media.
E’ chiaro che c’è un limite, anche in chi non dimostra mai un segno di squilibrio. Spesso quel limite non viene mai raggiunto. Ci si va vicini anche senza che lo stesso interessato lo sappia. Si arriva ad un soffio dall’esplodere, ma poi la tensione scema, la pressione diminuisce per le più varie ragioni, ci si calma e nessuno se ne accorge. Ma non è sempre così, ed alcune condizioni esterne possono incrementare le possibilità che il limite venga superato.
Ad esempio, il percepire la propria situazione come irrimediabile, il vedere intorno solo peggioramenti, il sapere che si è in tanti e sempre di più nella stessa situazione e che quindi per ognuno diminuiscono le chance individuali di riscatto può essere una delle cause che scatenano reazioni incontrollabili.
E questo ancora di più se si vive, come sembra ed è oggi, in una irreversibile ed irrimediabile condizione di solitudine dinnanzi ai problemi. Sentirsi soli amplifica il problema, lo ingigantisce, lo rende inaffrontabile.
E’ dai tempi del "riflusso" che viviamo sempre e solo il nostro essere in una dimensione individuale. Sia quando si tratti di affrontare il successo, sia che si debbano fare i conti con la sconfitta.
Il "politico", la dimensione collettiva e comunizzante era la cifra di quella grande stagione che si aprì negli anni sessanta; il chiudersi nel privato, il riflusso al proprio interno, appunto, fu la metafora ed il segno della fine di quegli anni: del nascere del mito del self made man, dell’indiviudalità vincente, ma anche del punk come reazione individuale alla sconfitta, dell’avvento dell’eroina come catarsi solipsistica dei mali avvertiti.
Ma finché il mondo ha tirato, finché la società ha visto crescere i propri benefici materiali, allora il problema non c’è mai stato. Ed anche chi perdeva nella corsa non metteva mai in dubbio il modello o le qualità e le ragioni dei vincenti: semmai condannava le proprie inadeguatezze, nei casi limite arrendendosi, negli altri sperando di risalire dalla sua condizione e contentandosi di piccole porzioni di presunta vittoria, anche di seconda mano.
Ma questo, solo finché la maggioranza, la stragrande maggioranza ha potuto sentirsi come parte "dei vincenti". Se le proporzioni mutano, se solo "i vincenti", o creduti e se credenti tali, diminuiscono, allora le cose iniziano a compromettersi.
E se si è fatta prima tabula rasa del "politico", visto e descritto come nemico acerrimo dello stare al proprio posto in società, allora la risposta non può che essere individuale: con tutte le nefaste conseguenze che ciò può avere.
"Anche se voi vi credete assolti/ siete lo stesso coinvolti" fa cantare De André ai giovani del maggio ’68; è ancora più vero dopo. Il compromesso sociale (ancora?) voluto dopo quegli anni, la pace borghese (di nuovo?) imposta per consentire, individualisticamente, il godimento delle posizioni raggiunte serviva a fermare i germi della rivolta di lunga durata (rivoluzione?) e congelare lo status quo in un preciso momento della storia.
Da allora i processi di "normalizzazione" si sono susseguiti in tutti gli ambiti della società; anche nella politica. Cito un solo esempio: i partiti della sinistra perseguivano allora un altro modello di società, un’altra società; il principale partito attuale della sinistra (?) che c’è oggi in Italia, il partito democratico, nasce dopo quel lungo processo e, fin dalle mozioni e dai primi documenti che ne hanno visto la nascita, col preciso intento di essere "in sintonia" con la società attuale.
Fuori dall’esempio, tutti gli attori attuali dell’agire sociale sembrano dire: "la società è questa, questi sono i rapporti di forza dati e questi gli schemi e le modalità esistenti per l’essere nel mondo; prendere o lasciare". Non tutti, certo, affermano questo essere "il migliore dei mondi possibili", ma nessuno ne teorizza un altro con diversi rapporti di forza ed una differente organizzazione.
E’ chiaro, allora, che se la dimensione politica per il cambiamento non è data ne viene avvertita come possibile, se la "forza", intesa come capacità d’azione organizzata, viene vista tutta da una parte e tutta a difesa dell’esistente, al singolo non resta che la dimensione della solitudine e della "violenza", come pratica concreta dell’eversione, da rivolgere verso gli altri o verso se stessi.
Quando si rivolge verso se stessi è un dramma che però la società derubrica sbrigativamente a "tragedia della solitudine", colorandola in negativo e non nascondendo in essa una correità del singolo incapace ad essere società. Quando la violenza si rivolge verso altri, allora la società alza, o almeno tenta, tutte le barriere a difesa dei suoi (da essa creduti e supposti) "principi inalienabili".
Ma è proprio allora che la società dimostra la realtà dell’essere tutti "coinvolti". Quando il gesto violento è l’unica prospettiva che rimane al singolo privato della sua possibile dimensione politica, tutti coloro che si sono battuti o a cui ha fatto comodo che la società si normalizzasse sui binare dell’individualismo rampante sono "coinvolti". Per stare sul concreto, i dirigenti che licenziano migliaia di lavoratori in ossequio ai dettami del capitale e salvano così il loro status e le loro (laute) prebende, non possono rispondere come i gerarchi della Wermacht al processo di Norimberga quando un lavoratore alla disperazione gli presenta il conto del suo essere ai margini.
Non esiste la possibilità di dire "io eseguivo soltanto gli ordini", si è sempre responsabili delle cose che si fanno, e la società nel suo insieme o le è ancora di più. Come ci spiega la liturgia cattolica, si fanno le cose "in pensieri, parole, opere e omissioni"; ancora di più in un mondo in cui le relazioni sono così tante e così interconnesse.
Il problema è semmai su quale piano, appunto, si gioco l’incontro e lo scontro fra le diverse posizione, su quale terreno si confrontano responsabilità e rivendicazioni. Cioé, se è sul terreno del politico che ciò avviene, allora le forme e le strutture organizzate tenderanno loro alla ricerca di una soluzione.
Ma se il "politico" per anni è stato visto come arnese superato e da superare a capito del "privato", allora è su quest’ultimo piano che si giocherà la questione. E su questo si muoveranno gli attori, usandone e seguendone strumenti e pratiche: violenza compresa, dal suicidio all’omicidio.
In definitiva, le forme organizzate anche della contestazione, le forme partito e sindacato tutelavano sì i diritti del lavoratore, ma difendevano, al contempo la proprietà e l’incolumità del dirigente e del padrone; tolta la camera di compensazione della rivendicazione e del confronto organizzato, rimane l’assalto alla casa del capitalista.
E se a qualcuno è piaciuta la bicicletta dell’individualismo, è ora che inizi a pedalare sulle difficoltà della disperazione non ricomponibile di singoli irrimediabilmente soli.
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