Finiamola di chiamarli “bulli”

Salve a tutti,
            sono stufo di sentir parlare di “bullismo” a proposito di ogni atteggiamento violento ad opera di ragazzi minorenni.
            So che questo tono drastico e caustico non mi si confà, ma realmente ne ho piene le scatole. Sarà anche politicamente scorretto, ma per me questi ragazzi che si pongono nel mondo con simili atteggiamenti sono scostumati, maleducati, delinquenti e, troppo spesso ahimè, terribili criminali.
            Pestare un down per un sadico divertimento, filmarlo e coronare il tutto con scritte ai contenuti nazisti e da un finale con “immancabile” saluto romano è CRIMINALE. E l’elenco dei crimini è presto detto: violenze e lesioni con almeno due aggravanti date dal numero degli aggressori e dallo stato di disabilità della vittima, violenza di gruppo se non addirittura, visto che i loschi compari erano usi a simili atteggiamenti, associazione a delinquere finalizzata all’aggressione ed all’intimidazione, apologia, con gesti e parole, dell’ideologia e del periodo fascista.
            Si, lo so, non sono un avvocato né un procuratore ed il linguaggio che ho usato, così come i presunti “capi d’imputazione”, non sono in linea con l’arte e la pratica forense. Ma la sostanza non cambia: sono delinquenti, non “bulli”.
            Il termine “bullo” nasconde sempre quel non so che da “simpatica canaglia”, quella innata simpatia che solitamente si prova per un ragazzino od un bambino che nei gesti e negli atteggiamenti, anche fintamente violenti, si atteggia a duro, a uomo vissuto. Fintamente violenti. Quelli visti – troppo visti, ma questa è un’altra storia legata ad un sadico voyeurismo proprio di questa, con Debord, “società dello spettacolo” – nel video dei ragazzi della scuola torinese, invece, non erano “fintamente”: erano realmente, e criminalmente, atteggiamenti e gesti violenti.
            Ecco perché non riesco a digerire il termine “bullo” in casi come questi. Perché quel termine, nel comune sentire, rimanda ad una accezione eccessivamente bonaria e paternalistica del “so’ ragazzi” che in simili situazioni è al di là del senso della decenza, oltre che della civiltà e dell’educazione. Quando fanno rumore e si divertono a suonare i citofoni la notte “so’ ragazzi”; quando marinano la scuola perché c’è il compito in classe “so’ ragazzi”; in estremo, anche quando impennano con lo scooter, mettendo a rischio la loro incolumità, o quando arrivano alle mani sui campetti di calcio delle scuole, facendo né più né meno di quel che fanno i professionisti dell’arte strapagati, “so’ ragazzi”. Quando in tre picchiano un disabile no, non “so’ ragazzi”, sono delinquenti, criminali.
            E come tali, mi spiace dirlo, vanno trattati. Perché se chiamiamo atti di “bullismo” quelli di Torino, fra un po’ diventeranno atti di “bullismo” anche gli ultimi fatti di Napoli, dove tre minorenni hanno sessualmente abusato di una tredicenne, e sadicamente, anche questi come i loro coetanei torinesi – quasi seguendo una terrificante “ultima moda” –, filmando il tutto con il telefonino. Questo gioco alla eccessiva permissività, alla fine, crea una distorta percezione della realtà e dei limiti. Non ci sono scuse per atti del genere, ci sono colpe che vanno espiate. A poco serve parlare della società e delle sue devianze come attenuante per simili crimini. Perché la società è la stessa per tutti, e allora, dato che le attenuanti, in linea di massima, varrebbero per ognuno, simili gesti dovrebbero per noi rappresentare la norma, e non una tragica e orribile “eccezione”. Non ci sto. Non voglio fare l’omelia sui valori, ma la civiltà ha regole e limiti da rispettare. La libertà non può essere edonisticamente concepita come la possibilità di fare tutto ciò che si vuole. Ed è meglio che cominciamo ad insegnarlo, anche con le maniere forti, ai nostri ragazzi: altrimenti temo il futuro che verrà.
            Infine due ultime annotazioni. La prima di carattere personale. Non ho figli, ma se un giorno ne avrò e se dovessi scoprire che mio figlio si è reso colpevole di un gesto come quello che abbiamo visto accadere nella scuola di Torino, credo che la Legge dovrebbe punire anche me: perché non ho saputo educarlo, in linea teorica, e perché non escludo di poter dar corso a gesti violenti su di lui a seguito dell’indignazione. Chiamatemi “all’antica” ma delle sane legnate in un caso simile a mio figlio non gliele toglierebbe nemmeno un intervento divino.
            La seconda ha un carattere più generale. L’indifferenza spesso è connivenza. Gli altri studenti presenti in aula, gli adulti che hanno avuto dei dubbi senza intervenire preventivamente o tempestivamente (non voglio dire che hanno visto, perché non lo tollererei), l’intero sistema scolastico e sociale che li circondava che è sembrato “fregarsene” – scusate il termine ma, credetemi, tra quelli che mi giravano in testa era il sinonimo più blando – di quanto accadeva sono in parte, se non del tutto, complici nell’orrendo crimine perpetuato fra i banchi di scuola. Tornando sul piano personale, dinnanzi ad un simile gesto sarei, “letteralmente”, saltato alla gola degli aguzzini. E non lo dico tanto per dire – come sa bene chi mi conosce –; non c’è infamia peggiore che prendersela con chi non sa o, peggio ancora, non può difendersi.
            Quindi, per favore, smettetela di chiamare “bulli” simili delinquenti.
  
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