La Ricerca della precarietà

Salve a tutti,
            il resoconto del bollettino economico presentato ieri al Paese dalla Banca d’Italia è quanto mai implacabile e impietoso circa lo stato dell’economia nostrana. Impietoso ed implacabile ancora di più se si considera che stavolta da via Venti Settembre non arrivano, o non solo, le solite accuse sull’eccessivo costo del lavoro o le consuete richieste di un innalzamento dell’età pensionabile. No, questa volta la struttura più autorevole sull’analisi dei conti e dell’andamento dell’economia dice a chiare lettere che il vero vulnus, il vero scoglio e problema dell’economia italica sono le imprese. Si, si proprio loro, proprio le realtà che dovrebbero contribuire alla crescita dell’economia, allo sviluppo. E non da oggi. Secondo la Banca d’Italia il problema è ormai quasi atavico e risalente almeno al 2000, se non prima.
            Le imprese, è detto a chiare lettere nel bollettino economico redatto dall’Istituto diretto da Draghi, devono investire di più in innovazione, migliorare la competitività dei loro prodotti, ammodernare le tecniche di produzione, investendo più risorse in ricerca per aumentare i contenuti tecnologici delle loro produzioni.
            E poi però, come sempre, si continua a picchiare sulle teste dei più deboli. Già, perché sempre la squadra guidata da Draghi ci dice, di nuovo, che un altro correttivo necessario è l’innalzamento dell’età pensionabile. Con una differenza sostanziale rispetto alla osservazione precedente. Se per quell’aspetto non si possono obbligare le aziende ad investire in ricerca per legge, su questo fronte, invece, non tarderanno ad arrivare avvisaglie circa le velleità governative di portare l’età pensionabile, che so io, a settant’anni: tanto la vita media è di poco superiore ai settantotto; che? Non vi bastano 8,2 anni di riposo? Nullafacenti e scansafatiche che non siete altro!
            E mentre mio suocero (cito lui così nessuno mi farà causa, spero) dovrà continuare ad arrampicarsi sui ponteggi per altri 15 anni, Tronchetti Provera e Co. continueranno a comprarsi i panfili con i soldi non investiti in ricerca ed innovazione. Giustizia sociale con l’avvallo di un governo di sinistra: rassicurante, non c’è che dire. Ah, dimenticavo, è di “centro sinistra”…e si vede.
            Le cifre fornite dalla Banca d’Italia preoccupano ancora di più se le si legge a fondo. Infatti ci dicono che negli ultimi sei anni nel Bel Paese il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 23 %, mentre in Francia e Germania questo stesso valore ha registrato flessioni comprese fra un minimo del 5 % e punte del 10 %. Costano di più i lavoratori italiani? Tutt’altro. Sempre nello stesso periodo di riferimento, infatti, i salari italiani sono cresciuti significativamente meno rispetto a quanto avvenuto nel resto d’Europa. Il problema, semmai, e nella produttività. Mentre da noi questa rappresenta un valore in continua e costante discesa, negli altri competitors essa ha registrato nell’ultimo sessennio crescite anche superiori al 23 %.
            Ora, non è che diminuisce la produzione perché i lavoratori italiani negli ultimi sei anni hanno incrementato i minuti impegnati nelle pause “caffé e sigaretta”. Semplicemente in questi anni gli imprenditori degli altri paesi hanno visto e pensato a come investire in ricerca ed innovazione parte dei loro profitti per potenziare la produttività delle aziende. Quelli italiani a come sperperare quattrini accumulati con il pluslavoro dei dipendenti a bere coctails con gli ombrellini contornati da veline al “Billionaire” di Briatore. Tutto qui. E fuori dal sarcasmo e dall’ironia, questa è la terribile verità del nostro sistema Paese.
            E quando il gioco si fa duro perché imprenditori indiani o svedesi da anni si rimboccano le maniche rinunciando ai dividendi per raffinare le tecniche produttive, i nostri “Confindustriali” vanno a piangere da Mamma Palazzo Chigi chiedendo dazi, o riduzioni al costo del lavoro, o più flessibilità/precarietà. E se sul primo aspetto Mamma Palazzo Chigi non può cedere perché altrimenti Papà Bruxelles fa la voce grossa, sul secondo è sempre pronta ad accontentare i suoi pargoli montezemoliani.
            Che tristezza, anche se ho provato un po’ a riderci su. Ma il fatto è che i nostri imprenditori invece di pensare a fare sistema e produzione pensano ai profitti ed ai dividendi, quando addirittura non vendono tutto per fare liquidità ed infoltire ancora di più il “partito della rendita”, la prima impresa per fatturato in Italia. Altro che Repubblica fondata sul lavoro.
            Mentre gli operai fra il 1943 ed il 1945 salvavano le fabbriche del nord dai nazifascisti intenzionati a smantellarle, mentre qualche anno fa la prima a lanciare l’allarme sul declino economico e sulla necessità di una nuova e coraggiosa via alta allo sviluppo, cominciando per prima a rimboccarsi le maniche in tal senso, fu la Cgil, Confindustria ripaga la cortesia chiedendo nuovi strumenti per togliere potere contrattuale al lavoratore a capito della capacità di far profitto: maggiore flessibilità/precarietà, innalzamento dell’età pensionabile, riduzione del costo del lavoro.
            A parte che non credo che il lavoro precario incrementi la produttività (anzi, vedo più l’effetto contrario causato dal naturale “tirare i remi in barca” del lavoratore all’approssimarsi della scadenza del contratto), vorrei rivolgere una domanda, per quel che vale la mia voce, al sistema industriale italiano: ma perché, invece di spendere tempo e risorse nel ricercare nuove strategie per truffare il lavoratore con la scusa della flessibilità/precarietà, non si investe direttamente nella Ricerca. In quella vera, in quella che ci vede sempre negli ultimi posti delle classifiche mondiali. Così si contribuirebbe a risolvere anche il problema di uno dei settori più “precarizzati” d’Italia.
            Ma forse, purtroppo, la risposta a questa domanda me la sono già data.
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