Vorrebbero la competizione, ma senza altri a competere

Uno li sente parlare, e magari ci crede davvero. Al fatto che tifino per una società competitiva e concorrenziale, dico. Insomma, sono sempre lì a cianciare di merito e della vita come gara continua per raggiungere le posizioni ambite, e invece, poi, alla prova dei fatti, negano i loro stessi princìpi e invocano protezione con la scusa delle regole nella concorrenza e della lealtà della competizione. In realtà, temono che si avveri sul serio quello che predicano.

Fateci caso: spiegano in lungo e largo la tesi dell’obsolescenza della contrattazione centralizzata per le norme e i contratti di lavoro, e poi si lamentano che qualcuno, soprattutto se giunto dopo nel posto in cui vivono, porti a livello individuale gli accordi, accettando molto meno di quello per cui loro sono disposti a fare qualcosa. Vogliono esportare le loro produzioni in tutto il mondo, ma si lamentano che da tutto il mondo i prodotti invadano gli spazi in cui si muovono. Pensano addirittura che la politica sia solo vincere, ma stigmatizzano il comportamento di quelli che, di rimessa, non hanno alcuna intenzione di perdere. E c’è di più: i tifosi della competizione non solo non vogliono i competenti (ché il merito, si diceva, va bene solo come chiacchiera da salotto) ma anche tutti gli altri che, semplicemente, competono, stupendosi che, dopo averne teorizzato l’ineluttabilità, gli altri si organizzano per affrontare, con le proprie forze e con le risorse che hanno, la concorrenza.

È come se le stesse competizione e concorrenza che santificano quando sono loro a vincere, siano da demonizzare qualora la ragione volga a lidi differenti e lontani. Mi tornano in mente, incidentalmente, le parole di un libro recentemente riletto, lì scritte, alle volte il caso, tra parentesi. Carlo Levi, L’Orologio: «della forza, della capacità, dell’abilità degli avversari bisogna sempre far conto – ed è la più vana delle abitudini il vezzo italiano di accusare, i piangendo, i nemici, delle proprie sconfitte».

O più semplicemente, non pensare che il mondo coincida con il proprio sé.

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