Sì, il patriarcato esiste ancora

Ricorda a tutti noi Arianna, la protagonista del bel romanzo di Katia Tenti, a proposito dei due processi celebrati, nel 1506 e nel 1510, nelle sale del maestoso Schloss Prösels di Völs am Schlern, e in cui furono condannate a morte per rogo donne innocenti accusate di stregoneria, che: «allo Sciliar era accaduto qualcosa di grosso, e di brutto. Qualcosa da cui il mondo non era ancora al sicuro. Allo Sciliar le idee sciagurate di pochi fanatici si erano trasformate, diffondendosi in una popolazione impoverita, terrorizzata e incattivita, in una bufera di odio e paranoia che aveva spazzato via la parte più indifesa della comunità: le donne che, per un motivo o per l’altro, non si erano integrate nel tessuto sociale dell’epoca. Succedeva ancora nel nostro mondo, nei nostri paesi civilizzatissimi. Non solo alle donne, anche se alle donne di più. E magari non finiva con un rogo, ma la sofferenza, l’umiliazione e la violenza rimanevano» (K. Tenti, E ti chiameranno strega, Neri Pozza, 2024, pag. 190).

Oggi quel massiccio, per i casi della Storia, si trova all’interno dei confini italiani, ed è un’amena località turistica. La valle che verso est gli si apre al di sotto, dà di sé un’immagine di opulenza; nulla rimanda alla misera vita di cinquecento anni fa. Eppure, fu così allora. Però l’Arianna di Katia Tenti ci dice ancora di più: è così anche adesso. Certo, non con il fuoco purificatore del tempo, ma è figlia della stessa mitopoiesi patriarcale l’idea che molti uomini hanno dei ruoli e delle colpe da attribuire ai sessi. Nel caso delle streghe dell’epoca, quel best seller ante litteram che fu il Malleus Maleficarum dei frati domenicani Kramer e Sprenger formulava i precetti e le prassi per schiacciare le malefiche, e si lasciava intendere, senza neanche nasconderlo poi così tanto, che esse tali lo fossero principalmente e proprio perché donne. Certo, si colpivano solo le minoranze più deboli ed emarginate; ma quando mai, una persecuzione, non è iniziata in quel modo? Nel tempo che viviamo, alle donne molti, troppi uomini spiegano come devono stare nel posto che essi, e solo loro, si sentono in diritto di assegnare.

Un ministro di questa Repubblica ha detto qualche giorno fa, per giunta intervenendo alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, che la lotta «contro il patriarcato» è figlia di «una visione ideologica» della realtà, e che l’aumento di fenomeni di violenza contro le donne «è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale». Sul tema del rapporto tra migrazione e violenza di genere usato in chiave elettorale (a parte la smentita nei dati), al titolato ha risposto come meglio non si poteva, e col dolore che le immagino nello scrivere, la sorella di Giulia, Elena, ricordando che proprio quella Fondazione «porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”». E inoltre, proprio quell’idea sottesa alle parole del ministro, ripresa da un po’ tutta la destra di governo, altro non è che un ulteriore aspetto del patriarcato, che vede le donne elementi deboli da proteggere, quasi cose al pari della roba o della patria, dagli elementi esterni alla comunità, al branco, mai dal branco stesso; e così, l’emigrazione letta come pericolo per l’incolumità della donna, facendo il verso alle peggiori brutture del periodo fascista, si pareggia con le uscite del Commander in chief dei maschi al potere dall’altro lato dell’Atlantico, sulle donne da proteggere «che lo vogliano o no».

È a una vittima della violenza maschile che è intitolata la Fondazione alla cui inaugurazione interveniva il ministro, definendo «ideologica» la lotta contro il precariato. E cos’altro è la volontà di dominio che emerge in tutti i casi di femminicidio, se non il frutto più amaro e velenoso di una visione del mondo in cui siano gli uomini, in via primaria se non esclusiva, a detenere diritto e potere su ogni aspetto della vita familiare e sociale, e su tutti coloro che ne fanno parte?

Il patriarcato e la mentalità a esso legata esistono tutt’ora. Nelle espressioni più violente che portano a conseguenze drammatiche, e nelle uscite che a volta ci paiono più leggere, innocue, addirittura muovendoci al riso. Non si erano ancora posate le parole del titolare del dicastero dell’Istruzione (perché poi di formazione parliamo), che un esponente del centrodestra umbro, commentando la vittoria della candidata di centrosinistra Eugenia Proietti, ha pensato bene di chiosare con un “battuta”, spiegando come, con lui candidato, lei «sarebbe a casa a lavare i piatti». No, non fa ridere perché non c’è nulla di divertente, ma solo l’espressione di un’antica pulsione patriarcale, appunto, che vuole le donne “al proprio posto”, senza disturbare e senza possibilità di cambiare l’ordine delle cose che ai maschi fa più comodo.

Ancora dal libro di Katia Tenti, con le parole che un altro protagonista, Martin, usa a cesello di alcune spiegazioni di Arianna sul come il Malleus Maleficarum trattasse più di una certa idea delle donne in genere che del demonio: «“Quindi è colpa vostra, sempre” rideva lui. “Conosco gente che una roba del genere se la tatuerebbe sul braccio”». Già, purtroppo credo che gente così la conosciamo tutti, e molti stanno persino in posti ben in vista e di comando, da cui possono influenzare e corrompere gli altri con le loro idee.

Per questo, checché ne dicano ministri e amministrati, è necessario continuare quella lotta.   

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