Vent’anni fa, Tullio De Mauro pubblicò un agile saggio in forma di intervista (La cultura degli italiani, Ed. Laterza, a cura di Francesco Erbani, 2004) per spiegare dal suo colto punto di vista, tra le altre cose, in quale buco oscuro di conoscenza stavamo finendo. Qualche anno dopo, il compianto linguista, insieme al curatore di quel testo, ritornò sui temi trattati, ribadendo come, nel tempo, fosse «mancata una politica pubblica per un’adeguata istruzione secondaria e universitaria, per un sistema di apprendimento durante tutta la vita, per biblioteche e promozione della lettura» (Op. cit., edizione ampliata 2010, p. 266). È mancata, e manca ancora.
Quest’estate, Eurostat ha pubblicato i dati sulla lettura (ad esclusione di quanto relegato agli ambiti scolasti e lavorativi) derivanti dalle rilevazioni su un significativo campione di cittadini europei sopra i 16 anni di età, e aggiornati alla fine del 2022. A svettare, nell’Unione, sono i lussemburghesi, con il 75% degli intervistati che ha dichiarato di aver letto almeno un libro nell’anno. A seguire, danesi (72%), estoni (71%), svedesi e finlandesi (70%). E gli italiani? Al terz’ultimo posto, con uno striminzito il 35% di cittadini che ha letto appena un libro nell’anno, seguiti solamente dai ciprioti (33%) e dai rumeni (29%). In pratica, nel Belpaese che si vanta d’esser faro per la cultura mondiale, due cittadini su tre non leggono neanche un libro all’anno. Dovrebbe essere un’emergenza politica nazionale, smuovere menti, energie e risorse come si fece per eradicare l’analfabetismo, leggere e sentir parlare di ciò su ogni quotidiano, rivista o trasmissione televisiva in cui si affrontino temi politici e sociali. E invece, nulla: anche quest’ultimo report è passato sotto silenzio, se non per gli articoli di routine a commento del dato puramente statistico.
Nei mesi scorsi, il Ministero della Cultura ha fatto parlare di sé, non si può negarlo; sui motivi, beh, lasciamo perdere. Forse per la mia mancanza di attenzione, però non ho letto notizie su programmi per provare a invertire quel trend. Che li abbia lanciati il Ministero dell’Istruzione? Pure qui, ammetto disattenzioni, ma ne dubito. D’altronde, quando a guidare un Paese c’è una classe dirigente che non ha idea della rotta o degli approdi in cui vuol portare il bastimento che conduce, non può che vedere come sabbia negli occhi chi prova a capirne di più; stimolando la lettura, proprio il numero di questi ultimi potrebbe aumentare.
E poi, insomma, è tutta la cultura in quanto tale a non andar bene ai manovratori del vapore (già, manovratori; perché si crederanno pur padroni, ma non lo sono, come i loro amici miliardari gli ricordano a ogni tweet, a cui possono soltanto “ripostare” le photo-opportunity che li vogliono insieme). E non va loro bene per il semplice motivo che non si piega alle narrazioni di rito. Al massimo possono tenerla in considerazione quale fronzolo con cui vendere altri prodotti, e quando si parla della sua promozione, la si intende sempre legata all’applicazione economica sul breve periodo, tipo la Venere del Botticelli assunta a influencer gastronomica, per dire.
Il problema rimane, continentale e incombente come le dimensioni che emergono dai dati in esame. E coinvolge tutti quelli che, in un modo o nell’altro, si occupano – o dovrebbero farlo – dell’argomento: politici a tutti i livelli, certo, ma anche insegnanti, formatori, operatori culturali e persino semplici appassionati di lettura e animatori di circoli letterari o di associazioni; per non rischiare di cadere nell’autoreferenzialità, come ammoniva lo stesso De Mauro nel libro citato, di una società dei letterati, tanto autorevole sul piano del prestigio sociale, quanto distante e distaccata dal paese reale.
Con i risultati che stiamo vedendo spiegarsi al meglio nel discorso pubblico (per tacere del dibattito politico, ovviamente).