Percival Everett è uno scrittore statunitense e docente presso la University of Southern California, autore, tra l’altro, dello splendido James (da qualche mese tradotto in italiano nella collana Oceani della Nave di Teseo), che racconta le “avventure” sul Mississippi con Huckleberry Finn, e la visione delle cose del mondo che da quelle vicende nasce, viste dal punto di vista di Jim, James, appunto, con il suo vero nome e non con quel diminutivo anonimizzante e spregiativo che i bianchi usavano per designare qualsiasi nero.
Everett è un intellettuale attento alle cose del suo paese, e intervistato da Annalisa Cuzzocrea per il podcast DayTime in onda ieri, 29 ottobre 2024, tra le altre cose, ha aperto lo sguardo su un particolare aspetto della stagione Trump che gli Stati Uniti stanno vivendo ormai da quasi un decennio, al di là delle sue fortune elettorali. Dice lo scrittore e professore che «la cosa peggiore che ha fatto Donald Trump all’America non è il costo economico della sua presidenza […], non è neanche il razzismo […]; la cosa peggiore che Trump ha fatto all’America è aver sdoganato l’ignoranza, il fatto che si possa pensare che non sapere le cose, che non studiare, che essere il meno preparato di tutti, alla fine sia una cosa buona, niente di cui vergognarsi». E criticare questa attitudine, questa propensione al ribasso nell’approccio alle visioni del mondo, però, spiega ancora Everett, «non è elitarismo, non si tratta di considerare inferiori le persone che sanno di meno. Tutti dovremmo voler sapere di più, tutti dovremmo volerci migliorare. Questa idea di volere tenere le persone nell’ignoranza, e quindi poi magari nella povertà, come succede in America, è un’idea profondamente sbagliata». E aggiungerei, come fa la giornalista della Stampa, che lo è nonostante sia questa, oggi, l’idea che sta vincendo. Un’idea, infine, fortemente classista.
La conoscenza delle cose, appunto, intesa quale streben dell’uomo, di ogni uomo, a superare gli ostacoli materiali e le condizioni che gli sono date. Ideale romantico? Non direi. Se ci pensiamo, formulazioni di simili concetti ci sono testimoniate molto prima di quel periodo, e potremmo fissarle nella medievale terzina del Canto XXVI dell’Inferno: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza». Visione aristocratica di un re che, per le sue ambizioni, condanna i suoi marinai alla rovina? Questo accade nel racconto dei fatti, ma non credo sia il senso ultimo del messaggio. Come dice Everett: è tutt’altro che elitarismo.
Il pensiero che si possa progredire con la conoscenza (e, io aggiungerei, solo tramite essa), c’entra con una visione di progresso volta verso gli ultimi, di sinistra, se non proprio socialista. Per riprendere le parole dello scrittore statunitense ricordate dall’autrice di DayTime, in fondo, convincere le persone che la conoscenza sia un inutile orpello è il modo migliore per continuare a tenerle nell’ignoranza, e quindi nella povertà.
C’è poi un altro aspetto, di quella tensione al continuo conoscere, al continuo migliorarsi per sé stessi, soprattutto in questa nostra società del benessere e nelle nazioni occidentali e ricche, dove i più, ormai, hanno fortunatamente allontanato le principali difficoltà materiali e dove dare solo materialmente risposte a desideri spesso indotti diventa sempre più insostenibile, se non impossibile.
Tornano così in mente le parole di Riccardo Lombardi, pronunciate nel 1967 a Torino, in occasione di un evento per le celebrazioni del Primo maggio: «la nostra lotta è contro la società affluente e il benessere, non già perché non vogliamo il benessere, ma perché vogliamo un certo tipo di benessere. Non quello che domanda tremila tipi di cosmetici o una dispersione immensa di risorse, ma quello che domanda più cultura, che domanda più soddisfazione ai bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso, perché questa, che preconizziamo, è una società in cui l’uomo diventa diverso a poco a poco e diventa uguale; diventa uguale all’industriale o all’imprenditore non perché ha l’automobile, ma perché è capace di studiare, di apprezzare i beni essenziali della vita».
In fondo e a pensarci bene, Everett ha ragione in particolar modo quando puntualizza che battersi contro l’ignoranza e perché ciascuno senta profondamente il senso dell’impegno personale a sapere di più non è elitarismo, ma esattamente, e al contrario, lo è l’atteggiamento di quanti sulla professione d’ignoranza e sull’invito a non istruirsi («Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza», scrive non casualmente Gramsci rivolgendosi alle classi lavoratrici, sul primo numero dell’Ordine nuovo, nel maggio del 1919) costruiscono le loro carriere e fondano le proprie posizioni di ceto e di rendita.
Non trovo migliori parole per concludere e spiegare tale tesi che affidarmi a Nicola Chiaromonte (da Tempo presente, maggio 1968, ora in Il tarlo della coscienza, Mondadori, 2024, con il titolo La tirannia moderna, pp. 374-400 ): «quelli che hanno semplicemente orrore della servitù, dell’asservimento e della stupidità che accompagna l’asservimento, esistono. E non è detto che siano tutti, o anche in maggioranza, dei privilegiati e degli spregiatori del volgo. È vero anzi il contrario: sono una minoranza, la minoranza irrequieta che impedisce al corpo sociale di cadere nel letargo delle “età oscure”. D’altra parte, l’ingiuria più grave che si possa fare al povero e all’oppresso è di presumere che a lui importi solo esser messo al lavoro, sfamato, vestito, alloggiato e divertito».