Quel «burattino» non mi offende

Guy Verhofstadt mi è simpatico come il dolore cervicale con cui mi sono svegliato questa mattina; non starò pertanto qui a prender le sue parti. D’altronde, non ero io quello che insieme al lui voleva formare un gruppo al Parlamento europeo. Ciò detto, è curiosa la difesa del premier Conte difronte alle esternazioni dell’ispido fiammingo che si legge nelle parole anche di commentatori di solito sullo stesso iper-critici. Addirittura, sulla prima del Corriere, Gramellini ha parlato di «squadra», usando in pieno la metafora calcistica per motivare la sua censura dell’esponente dell’Alde, quasi fosse tifo e non politica quella di cui parliamo, e per dirsi pure lui offeso da quelle dichiarazioni. Ora, chiarisco quasi subito: io, da quel «burattino» detto da Verhofstadt, non mi sento affatto offeso. E per un paio di ragioni, almeno (oltre alla simpatia per l’indiretta citazione di quello che ritengo il libro più spietatamente preciso sugli italici costumi).  

La prima, la spiegava mercoledì scorso Andrea Bonanni su Repubblica: «Conte, che aveva difeso il diritto del suo vice Di Maio di andare in Francia a stringere la mano alla frangia più eversiva dei gilet-jaunes in nome della libertà di dialettica politica, non ha trovato di meglio che dichiararsi offeso dalle critiche “anche a nome del popolo che rappresento”. Insomma, i suoi ministri possono andare in Francia a predicare la rivolta contro Macron, ma gli eurodeputati, nell’emiciclo parlamentare e in occasione di un dibattito politico, non possono criticare il suo governo, sennò offendono il popolo italiano». La seconda, me l’hanno insegnata in questi anni proprio gli esponenti e i militanti dei partiti di maggioranza: dei rappresentanti del popolo, italiani o stranieri che siano, si può dire di tutto, senza che quei popoli da ciò debbano sentirsi offesi. Si può dire che sono al soldo di Soros, che sono servi dei Rothschild, che ce l’hanno piccolo (è il livello a cui siamo giunti con i governanti di oggi, non prendetevela con me per le parole che uso), che sono ubriaconi, che sono collusi con le mafie, che fanno ridere il mondo intero, che fanno affari con i trafficanti di esseri umani, che devastano i territori in cambio di mazzette, che sono pagati dalle banche, che sono nemici della loro gente, che sono amici degli affamatori delle nazioni, che vanno a puttane, che ci mandano il Paese intero, che hanno svenduto la sovranità dei loro Stati in cambio di pochi spiccioli, e non uno dei rappresentati deve sentirsi tirato in ballo. I loro, invece, no, nessuno li può giudicare, pena vilipendere «il popolo» complessivamente considerato; perché?

Anche io sono popolo, a dispetto d’una retorica arrabbiata quanto strabica che vuole élite tutti quelli che non vomitano odio contro quanti stiano peggio di loro, e non mi sento toccato dalle parole del liberale belga. A meno che la molla della levata di scudi a tutela di Conte non sia da rintracciare nel secondo degli aggettivi che ho appena usato per definire Verhofstadt: belga. Straniero. Cioè, nella metafora del Gramellini di sopra, il problema è che lui sia di un’altra «squadra», non che dica le stesse cose che molti, qui tra l’Alpi e Sicilia, hanno detto, scritto e argomentato decine e decine di volte. Nemmeno su questo, però, mi avrete al vostro fianco.

Non starò con voi, pure qui, per più di un motivo. Perché per me Verhofstadt è un europeo, come lo sono io. E m’avete insegnato voi, proprio quelli alla Gramellini, a pensare la mia patria dal Circolo polare all’Egeo e, prim’ancora, la tradizione internazionalista da cui arriva la mia ideologia m’ha detto che «nostra patria è il mondo intero». Straniero, quindi, alle mie orecchie non dice quasi nulla; se ho il diritto io di parlare dei potenti della Terra e di criticarli, ogni terrestre lo ha di quelli che rappresentano questo suo angolo chiamato Italia. E perché, poi, ho anche dei dubbi sul considerare «mia parte» i rappresentanti attuali, quelli che parlano la mia stessa lingua e solo per questo.

Fra essi, infatti, e con grandi responsabilità e facoltà di dominio, vi sono tanti di quelli che non hanno esitato a chiamarmi, in modo sprezzante e con intento offensivo (non sempre riuscendoci, va detto), «terrone», che han fatto di tutto per non farmi considerare italiano loro pari, che avrebbero voluto per me e per quelli come me una sorta di cittadinanza minore.

Dovrei io arrogarmi adesso la presunzione di sentirli – loro e i loro alleati – «compatrioti»?  

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