Scriveva sulle pagine culturali del Corriere di ieri Carlo Rovelli: «non è il potere che si costruisce attorno a identità nazionali; è viceversa: le identità nazionali sono create dalle strutture di potere. Visto dal mio giovane e ancora un po’ disfunzionale Paese, l’Italia, questo è forse più facile da notare che non dall’interno dell’antico e nobile Regno di sua maestà la regina. Ma è la stessa cosa. Non appena emerso, generalmente con fuoco e furia, la prima preoccupazione di qualsiasi centro di potere — antico re o borghesia liberale del XIX secolo — è promuovere un robusto senso di identità comune. “Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani” è la famosa esclamazione di Massimo d’Azeglio, pioniere dell’unità d’Italia, nel 1861».
Quello che dice il fisico veronese, è come se la mia gente lo sapesse da sempre. Forse per questo, in fondo, alla nazione, alla patria, a tutta la retorica della «propria terra», non ci abbiamo mai creduto. È una storia che ho già raccontato, ma che in questo tempo che pare voler risvegliare istinti nazionalisti in esclusiva chiave di contrapposizione credo sia il caso di ricordare. Ed è il senso di una conversazione che ebbi anni fa con un anziano delle mie parti. Una vita come tante, la sua: invecchiato prima di poter essere giovane, fatica in campagna per scarso pane, emigrazione, fatica ancora, un po’ più di pane, un principio di tubercolosi, il ritorno in paese per la vecchiaia, a farsi bastare una pensione che altri chiamerebbero misera. Gli chiesi se avesse mai provato nostalgia della sua terra, nei suoi anni di Germania, e sorrise a quel termine, «nostalgia», che evidentemente gli parve roba da ricchi. No, mi spiegò, la sua terra era troppo poca per esser rimpianta, tre tomoli appena, e quanto all’altra, quella nell’accezione ideologica, beh, anche a questa non si sentiva troppo partecipe. «La terra», mi disse, «per poca o tanta che sia, è sempre e solo di chi ce l’ha. E quelli che ne hanno molta, troppa, sono gli stessi che la dicono pomposamente “nostra” quando c’è da difenderla contro qualcosa o qualcuno, ma che son lesti a ribadirla ferocemente “loro” se, per caso, si parlasse di dividerla».
Sì, perché questo è l’identità nazionale, come scriveva Rovelli: una costruzione del potere per legare a sé le persone, sfruttando il bisogno di appartenenza e offrendo ragioni per un impegno generoso, gratuito. Salvo poi, da parte dei potenti stessi, scordarsene appena non più necessarie. E così, i figli dei meridionali arruolati per allargare e difendere i confini alpini divennero i terroni che rubavano il lavoro nelle fabbriche a quelle stesse latitudini, i giovani patrioti chiamati a raccolta e in armi a far grande l’Impero che si voleva a tutti i costi furono gli scarti da scambiare a basso costo per un po’ di carbone negli accordi della nascente Europa e quelli che oggi si immaginano parte a pieno titolo d’una bianca nazione schierata contro il nero migrante invasore, si scopriranno domani abbandonati alla miseria da chi, con loro, non vorrà aver niente da spartire.
Se mi è consentita la citazione, è un po’ come argomentò don Lorenzo Milani, nel suo L’obbedienza non è più una virtù del febbraio 1965: «Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri».
Ecco perché non mi avrete; perché so che non mi volete.