Che cos’è la rappresentanza?

«La maggioranza legale è essa che deve governare, ma perché un Governo sia accettato dalla coscienza pubblica si richiede che la maggioranza legale sia insieme maggioranza reale nel Paese, altrimenti del sistema parlamentare c’è soltanto l’apparenza». Francesco De Sanctis, citato da Pietro Secchia in un intervento al Senato il 17 dicembre del 1968. Il senso della rappresentanza è tutto qui: nella proporzione fra le assemblee degli eletti e le platee degli elettori. Se salta, viene meno il rapporto di continuità fra “volontà popolare” e potere costituito, e da lì tutto il resto.

Leggendole, mi sono ricordato di una chiacchierata fatta con un amico un paio d’anni fa nel paese in cui sono nato. Lui lamentava il fatto che lungo il corso e nelle piazze, in fila alle poste o in attesa dal medico, l’ottanta per cento, se non oltre, di quelli con cui gli capitava di parlare si dichiaravano contrari all’azione dell’amministrazione comunale. «È incredibile: se ci sono dieci persone in una stanza, otto parlano male del sindaco. E il bello – aggiungeva – è che se tu glielo chiedi, ti rispondono di non averlo votato. Tutti, ognuno di coloro che ne parla male. Come se a votarlo fossero stati i due, o forse meno, che ne condividono le scelte». «Già, è curioso. Ma il fatto – ricordo d’aver risposto – è che le cose stanno proprio così, nelle percentuali e con i rapporti che hai detto».

Le cose stavano e stanno così per una ragione numerica banale. Quando nel 2012 a Stigliano, un comune al di sotto dei 15mila abitanti e quindi con un sistema elettorale fortemente maggioritario, si è votato per il rinnovo dell’amministrazione cittadina, a competere fra di loro c’erano 4 liste. Quella che vinse ebbe il 28,06%, e le altre rispettivamente il 27,37, il 22,45 e il 22,10. Se a ciò si aggiunge la considerazione che a votare furono il 66,06% degli aventi diritto (risultato di tutto rispetto, se si pensa alle attuali tendenze), il risultato della lista vincente, realmente, corrisponde a un consenso pari al 18,54 per cento degli aventi diritto al voto; l’uno o i due cittadini su dieci che si incontrano quando si va a far spesa, all’ufficio postale, dal medico.

Accade così solo nei piccoli comuni? Non proprio. Il risultato del referendum sulla Brexit ha detto che il 52% (del 72% che si è recato ai seggi) del Paese è contro la permanenza del Regno unito nell’Ue, mentre nel parlamento solo un terzo dei deputati ha quella posizione. Uno scollamento che non deve però stupire, se si pensa che alle scorse elezioni generali con cui quella camera si è composta, i conservatori di Cameron presero il 51% dei seggi col 37% dei voti, i laburisti il 35 col 30, il partito nazionale scozzese quasi il 9 col 4 e l’Ukip di Farage solo un seggio, lo 0,15%, contro il 13 per cento dei consensi effettivamente ottenuti, per di più, in una situazione in cui alle urne si erano recati solo un terzo degli aventi diritto, facendo della maggioranza dei tory l’espressione di appena un suddito di sua maestà su dieci.

E un po’ è accaduto anche qua, visto che il Pd che governa il Paese è stato votato solo da un quarto del 75 per cento dei cittadini che hanno votato nel 2013 e che, con la prossima legge elettorale, potrebbe succedere che il 41% dei voti della metà degli elettori che si recassero alle urne, cioè due cittadini su dieci, come quelli di cui parlava il mio amico, potrebbero essere poi rappresentati, nell’unica Camera che rimarrebbe a decidere il governo nazionale, dal 54% dei deputati.

Poi, a un referendum qualsiasi, si scopre che gli elettori pensano cose diverse dagli eletti.

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