In difesa di una generazione

No, non la mia, ma quella dei fratelli minori fino a quelli troppo piccoli per essere miei fratelli. Parlo dei nati fra gli anni ottanta e la fine del secolo scorso e che oggi hanno, quindi, fra i quindici e i trentacinque anni.

Fanno parte di una generazione conosciuta forse con più nomi di tutte le altre che l’hanno preceduta: Echo Boomer, Y, NextNet, fino forse al più evocativo ed esplicativo, Millennial. Ora, su questi ragazzi ne abbiamo sentite troppe, da statistiche e rapporti sociali che li volevano Neet fino a ministri che li vedevano choosy. E in tante, troppe, sotto sotto tutte, analisi, il tema era quasi sempre lo stesso: sono così perché non han voglia di darsi da fare. “Sdraiati” o “sfigati”, secondo le definizioni di un giornalista smemorato e di un paracadutato figlio di papà, sembrano non reggere il confronto con i loro padri o zii, quelli della generazione Baby Boomer, da noi “la meglio gioventù”, nata fra il secondo conflitto mondiale e gli anni ’60. Però, mi chiedo, questi ultimi che hanno fatto di così meritevole?

No, perché dico, quelli di prim’ancora han fatto la guerra e la ricostruzione, a volte sono andati via “per far grande il Paese” che li scambiava a carbone, han conosciuto la miseria e la caduta, han temuto che non ci fosse un domani. Ma quelli della generazione che ha preceduto la mia, singolarmente, intendo, così come singolarmente giudicano, cosa han fatto per meritarsi le fortune che i venti/trentenni di oggi non possono nemmeno permettersi di sognare?

“A questi ragazzi non va di fare sacrifici”, mi spiega una conoscente, quasi sessantenne, terza media serale, impiegata municipale entrata in Comune ai tempi della 285 del ’77, con una conoscenza del diritto amministrativo e del computer inferiore a quella che ho io del cinese mandarino, mentre commenta la notizia del figlio di una sua amica, laureato in Scienze Politiche e con specialistica in relazioni internazionali, che ha rinunciato, guarda un po’, un posto da stagista addetto alle fotocopie senza prospettive né retribuzione degna di tal nome in un’assicurazione.

“Vogliono il lavoro sicuro e sotto casa”, asserisce un amico di famiglia, neo pensionato, che ha lavorato sempre nella stessa ditta dal ’71 e dalla quale ha ottenuto, nel ’79, d’essere spostato dallo stabilimento di Santena a quello di Chieri (controllate sulla mappa le distanze) perché viaggiare tutti i giorni era scomodo, mentre pontifica sull’amico del figlio che ha declinato la chiamata all’Expo per volare oltre Manica a fare il cameriere a contratto.

Davvero, non capisco con quale ardire simili predicatori del “noi sì, altro che voi”, s’arroghino il diritto di spiegare ad altri come si stia al mondo, dopo che, spesso, loro per arrivare dove sono arrivati han fatto solo la fatica di chiedere a qualcuno se poteva assumerli, o farli assumere, non di rado senza esser mai chiamati a dimostrare alcunché.

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