La favola vuota a cui in molti han voluto credere

Crollano i verdi bastioni di carta pesta e polistirolo
come cimeli lasciati a ingiallire
da distratti produttori cinematografici,
arredi e sceneggiature dimenticate alla fine del film.
Uomini che bevevano leggende e favole
sbattono il muso contro la realtà che travolge,
che spinge alla morte per miseria,
che impone compassione e rispetto
verso chi mai ne ha avuto per gli ultimi, per gli altri.
Vecchi malati e stanchi s’illudono di rinascere
come se su ceppi esausti potesse innestarsi
la giovane vita, che ha ormai altri colori di pelle,
altri capelli, altri occhi e altri suoni della voce.
Un territorio che è stato faro e guida dei popoli,
in vent’anni ridotto a barzelletta, operetta,
caricatura della sua ardimentosa storia,
fraintendimento della sua seducente geografia.
Capi senza idee per il futuro e cultura del passato
hanno guidato progetti campati in aria,
vestito i panni di tradizioni a fumetti,
replicato in piazza i miti di celluloide.
Fondendo mitologia a puntate settimanali
con accenni a nomi di vicende reali,
scambiando i passaggi della Storia
come le figurine fra i banchi di scuola,
si è dato vita ad una terra con nomi da cartoon
che ha spodestato quella reale, viva,
quella con storie vere e grandi da raccontare.
Come è stato possibile credere a tutto ciò?
Come si è potuto mischiare, senza riderne,
tradizioni vere a cerimonie inventate,
ritualità da baraccone con vissuti reali,
come si è potuto sostituire la Storia
di terre che ne avevano da narrare
con fiabe e leggende vuote e pallide,
uscite dalla mente di vanesi condottieri?
Per lo sgomento d’essere soli e sperduti.
Per anni tesi a vender saperi e culture,
a svendere territori e tradizioni
in cambio di un malinteso benessere,
a cedere borghi interi a luoghi di commercio,
campi e orti a infinite teorie di capannoni,
ci si è ritrovati spersi nei posti conosciuti,
e, non riconoscendoli, ci si è atterriti.
Si è cercato per anni fra le vetrine
quanto prima si trovava in sé.
Si è cercato di riempire i vuoti di essere
aumentando le risorse dell’avere,
scambiando la dimensione umana
con una somma di merci prese a saldo.
L’impresa della paura ha fatto il suo gioco,
lucrando sui sentimenti smarriti,
ottenendo posizioni, potere e prebende
rassicurando chi chiedeva certezze,
minacciando quanti potevan turbarle.
Ha preso una foto del passato,
quella più bella ai suoi occhi,
l’ha ripulita con gli strumenti del fantastico
e ne ha fatto un momento da eternare,
un’epica età dell’oro da rivivere.
Come se il presente potesse diventare
la sostituzione arbitraria e ripetuta
di un instante mai vero di un passato finto,
come se la Storia potesse eternare un attimo,
fermarsi sul fotogramma più gradito
e ripetere infinitamente la favola migliore
per addormentare menti spaurite dall’ignoto.
Si è raccontata una favola, nemmeno bella,
e si è speculato con essa sul sonno dei giusti,
dei tanti che a tutto preferivano la calma,
la tranquilla vita che volevano sognare,
la sicura esistenza che gli stessi narratori
gli avevano raccontato e promesso.
E le genti hanno creduto a ciò?
Nessuno ha indicato le nudità del re?
Tutti dietro al pifferaio scaltro?
Senza un dubbio, un ripensamento?
Si crede a tutto pur di stare insieme,
e ci si aggrappa anche alle illusioni
pur di avere qualcosa per potere dire
“questi siamo noi, questo sono io”.
Per chi non è più abituato al caso,
per chi ha smesso da tempo
di fare i conti con la sorte e le avversità,
dev’esser tremendo e terribile sentirsi soli,
senza riconoscere la strada dell’ieri,
senza scorgere la via per il domani.

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