Erat modus in rebus

            C’era una misura diversa nel vivere le cose e nel mondo qualche decennio fa. No, nessun ascetismo eremitico. Piuttosto la tensione a quell’aurea mediocritas di cui parla il mio illustre conterraneo dell’antichità Orazio (lucano anch’egli, di Venosa) nelle sue Odi. E come in Orazio, anche in quella mediocritas non v’era traccia dell’accezione puramente negativa che l’italiano dà al termine mediocrità.

            Più che altro era la descrizione di uno stare in mezzo, in una posizione intermedia fra il massimo ed il minimo che la vita poteva significare. Né ottimo, né pessimo: accettabile, decente, dignitoso. Un giusto mezzo, né tanto, né poco: quanto basta. La dottrina della poetica oraziana era la traduzione della filosofia epicurea, quell’invito a godere dei piaceri della vita, ma con moderazione, senza abusare, senza strafare. Ed una volta raggiunta quest’aurea “medietà” fra le varie posizioni, fra le diverse situazioni e condizioni, si sarebbe stati capaci di vedere, come ancora il poeta venosino ci raccomanda nelle sue satire, che est modus in rebus, c’è una misura nelle cose, in tutte le cose del mondo e della vita.

            Ed anche se analfabeti, anche se poco scolarizzati, i nostri nonni questo lo sapevano, lo sentivano, era per loro giusto: senza spiegazioni filosofiche ma con la forza del sentimento del buon senso.

“Ti serve ciò che ti basta per vivere”. Potrebbe essere questa la massima di allora, una massima che nei nostri avi è valsa fino all’altro ieri, e che oggi sembra ispirarsi a principi che non valgono più nulla: eppure vorrei che fosse incisa in tutte le pietre miliari sulle strade del Mondo, davanti alle Borse nazionali, alle sedi dei governi ed all’ingresso delle fabbriche, nelle sedi delle aziende di Stato come nei messaggi a bande colorate della fine delle trasmissioni televisive. Invece, abbiamo messo il turbo alle cose della Terra. Abbiamo voluto tutto e lo abbiamo voluto subito.

Ormai forse è troppo tardi. Eppure solo ora cominciamo a farci la domanda reale: tutto che? Il necessario o ciò che non ci sarebbe mai servito se non lo avessimo apposta inventato, costruito, pensato, ipotizzato. Ci servivano davvero le utilitarie da 100 cavalli e 200 all’ora per andare a comprare il pane che sale sempre più di prezzo perché stiamo consumando il petrolio e ci servono i cereali per il bioetanolo? Erano proprio necessari fuoristrada di sei metri capaci di reggere il confronto con i mezzi di Overland per accompagnare i figli a scuola e poi, ovviamente, non poter parcheggiare? Ci servivano davvero i telefonini capaci di sostituire intere biblioteche, di scaricare in un attimo tutti i classici della cultura latina e greca, di navigare su internet e con le mappe del tom tom di tutto il Mondo per star seduti all’angolo della piazza del quartiere a mandare messaggi “poetici” con “xché 6 grnd e tvb”? E’ necessario trovare fonti di energia atomiche per consentire agli americani di illuminare le loro abitazioni a Natale in modo che si vedano dalla luna? E’ indispensabile montare condizionatori per poter indossare il maglione di cachemire a Palermo ad agosto, o impianti di riscaldamento così potenti per girare in costume da bagno a casa a Vipiteno a Capodanno? Ci servono quattro televisori a testa? Dodici telefonini a famiglia?

Ma c’è l’ho col consumatore finale? Certo che no. Ma la cultura del tempo si misura nelle cose di ogni giorno. Perché è la misura del come vanno le cose. L’utilitaria da 100 cavalli è l’emblema di una società in cui non sei nulla se non hai il massimo. E così, tirando e ritirando, si arriva a concepire che si possa guadagnare un milione di euro al mese per tirare calci ad un pallone, milioni a far finta di capire in Borsa com’è che va l’economia (che poi quando va male ci pensa pantalone, ma questa è un’altra storia), per cantare canzonette o mostrare le gambe in pubblico (poi la multa la si fa alle meretrici lungo i viali), per far finta di dirigere un’azienda o per non dirigere un Paese. Come se le risorse fossero infinite, come se l’uomo non avesse bisogno di regolare le sue pretese su quello che è il Mondo. Ma le risorse non sono infinite, anche quelle economiche. E se i soldi non bastano non si dividono quelli in alto, si taglia in basso. Perché? Perché, come si dice dalle mie parti, prova a togliere l’osso dalla bocca di un cane: se non c’è l’ha si arrangia, ma una volta preso…

E allora si arrangino i più poveri, i più deboli, e chi non c’è la fa, pazienza: è il liberismo, baby! Come se il liberismo o l’attuale ripartizione delle risorse nascesse da un distacco della Pangea, da una legge divina immutabile, da una condizione di natura di fronte a cui gli uomini sono impotenti.

La nostra educazione alla dis-misura ha prodotto il mostro della diseguaglianza incommensurabile. Ed ora? Prospetto un ritorno al passato? Nient’affatto. Piuttosto un balzo nel futuro, in un Mondo più adulto capace di dare il giusto valore e senso alle cose, e che capisca che non può esistere, sotto lo stesso cielo nello stesso momento, chi muore di fame e chi di crapula. Non fosse altro che per non assistere alla nostra fine, come non dipendesse da noi, da ciascuno di noi, e magari, all’ultimo istante, rimpiangerli, dopo averli voluti dimenticare e deridere a tutti i costi, quei tempi in cui erat modus in rebus.

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