Sembra una storia scritta a tavolino

Nel film Selma della regista Ava Marie DuVernay, Malcom X dice a Coretta Scott King, moglie del leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, che lui è presente, in quella particolare fase della storia, non come nemico del reverendo, ma quale «alternativa che spaventa tanto i bianchi da considerare Martin Luther King il male minore». Ecco, la frase mi è tornata in mente in questi giorni, quando i sondaggi sui sentimenti diffusi nella nazione paiono dar ragione alle posizioni del centrodestra più che segnarne un allontanamento, dopo l’atto terroristico di stampo nazifascista di Macerata (lo è, tutte e due le cose: è terrorismo, almeno nell’accezione con cui una certa nevrastenia dei tempi moderni iscrive in quella categoria ogni gesto, pure isolato e al di fuori di qualsiasi organizzazione, che miri a creare terrore, o semplicemente, nei fatti, lo determini; è nazifascista, perché tale è l’attentatore, perché ce lo aveva scritto in fronte, e non è un modo di dire, e perché lo ha sottolineato lui stesso con i saluti romani e i tanti suoi pari che, vilipendendo la parola, gli tributano “onore”).

E può apparire curioso — in un certo senso, ironico — che a proposito degli effetti sull’opinione pubblica a seguito di un attentato contro persone di colore commesso da un bianco (ma poi, noi genti d’Italia, bianchi lo siamo davvero?), mi sia ricordato delle parole di una pellicola che racconta i fatti del movimento per i diritti dei neri. Ma tant’è; l’associazione è in quella contrapposizione fra l’alternativa spaventosa e il male minore. Il giorno dopo la tentata strage, tutti davano per assodato che ci fosse una «bomba sociale» legata all’emigrazione (lo ha detto Berlusconi, dando i numeri di promesse espulsioni, lo vanno ripentendo da che sono sulla scena politica i vari Salvini e Meloni, lo hanno ribadito Renzi e Di Maio, nel tentativo di addossarne al primo la responsabilità) e addirittura c’è stato chi si è spinto a vedere nel gesto criminale di Traini una sorta di suo «farsi giustizia da solo», quasi che lui fosse vittima di un torto o quelli a cui ha sparato colpevoli di una qualche forma di reato. Concetti che, in fin dei conti, concorrono a definire un quadro concettuale preciso: nel racconto del Paese, c’è un’emergenza immigrati che è diventata un male da sanare, subito, con la forza delle istituzioni, prima che qualcuno, appunto, lo faccia da sé, con la violenza di cui può esser capace. E che tutto questo sia semplicemente folle, oltre che non vero, non lo dice più nessuno.

Così, come nelle parole del Malcom X in Selma, il pelato con il dente di lupo tatuato sulla tempia è «l’alternativa che spaventa» e la destra low and order (ma solo con gli ultimi, ovviamente) si candida a essere «il male minore», quando non, per un sempre crescente numero di persone, lo strumento migliore per combattere la battaglia contro l’immigrazione, prima che diventi un ingestibile scontro sociale, una terrificante guerra civile.

Le Marche non sono l’Alabama degli anni ‘60. Macerata non è una banlieue abbandonata. Traini non è la punta avanzata di un’organizzazione neonazista radicata nel territorio e nella società, pronta a prendere il potere e il controllo dello Stato. Sono sintomi, sì, tendenze, in qualche caso epifenomeni d’un malessere reale, ma non viviamo la situazione da periferia sudamericana che una certa narrativa punta a disegnare. Ingigantire i problemi fa il gioco di quelli che promettono di avere la soluzione più dura e immediata per risolverli prima che degenerino, almeno quanto è dannoso e inutile sottovalutarli o, peggio, ignorarli. Bisogna studiare le questioni, le dinamiche che le hanno generate, le parabole che, nel loro farsi, disegnano, provare a capirle e poi cercare parole di verità e azioni consequenziali e mirate, nonché misurate, per dare le risposte necessarie e opportune.

Ma il tutto, nella campagna elettorale permanente in cui viviamo, è dannatamente difficile.

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