«Cercavamo braccia, sono arrivati uomini»

«Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo braccia, sono arrivati uomini. Non divorano il benessere. Anzi, al contrario, sono indispensabili al benessere stesso. Però sono qui. Lavoratori ospiti o lavoratori stranieri? Io preferisco la seconda definizione: non sono ospiti che vengono serviti per ricavarne del guadagno. Sono persone che lavorano, e che lavorano all’estero, perché nella loro patria al momento non avevano possibilità di campare. Non si può volergliene male. Parlano un’altra lingua, ma anche in questo caso non si può volergliene, soprattutto perché la lingua che parlano è una delle quattro lingue nazionali. […] Se il piccolo popolo sovrano non si facesse un vanto della propria umanità e tolleranza e così via, il rapporto con la manodopera straniera, con i lavoratori stranieri, sarebbe più semplice: li si potrebbe sistemare in veri e propri campi di raccolta, dove potrebbero perfino cantare, e in questo modo non si riempirebbero di stranieri le nostre strade. Ma non si può farlo: non sono prigionieri, e nemmeno fuggiaschi. E allora ecco che vanno nei negozi e fanno acquisti, e quando hanno un infortunio sul lavoro o si ammalano vengono ricoverati anche loro negli ospedali. Ci si sente invasi dagli stranieri, e allora si comincia letteralmente a prendersela con loro. […] Si dice che risparmino un miliardo all’anno e lo spediscano a casa. Non era questo che s’intendeva. Risparmiano. E in fondo anche in questo caso non si può volergliene. Però sono qui, un’invasione di persone straniere quando invece, come detto, si voleva soltanto della forza lavoro. […] Lavorano bene, a quanto pare, sono perfino molto capaci: in caso contrario non ne varrebbe la pena, se ne dovrebbero andare, e il pericolo degli stranieri sarebbe scongiurato. Debbono comportarsi in maniera irreprensibile, meglio dei turisti, perché in caso contrario il paese ospitante rinuncia alla congiuntura economica. Questa minaccia, va da sé, non viene espressa, ad eccezione di alcune teste calde che non capiscono nulla di economia. In generale ci si mantiene sul piano di un tollerante nervosismo. Sono troppi, ecco il motivo. Ma non nei cantieri, non nelle fabbriche, non nelle stalle e nemmeno nelle cucine. No, sono troppi nelle ore libere, soprattutto di domenica all’improvviso sono troppi. Balzano agli occhi, sono diversi. Osservano le ragazze e le donne, fintanto che non possono portare le proprie all’estero. Non si è razzisti. In fondo è una tradizione non essere razzisti, e la tradizione si è confermata nella condanna di atteggiamenti francesi o americani o russi, per non parlare dei tedeschi, che hanno coniato il concetto di popoli aiutanti. Tuttavia sono diversi, ecco tutto. Mettono a repentaglio le peculiarità del piccolo popolo sovrano che non ama farsi descrivere, a meno che non si tratti di un autoelogio che non interessa gli altri. Adesso invece sono gli altri a descriverci».

La lunga citazione, con i suoi toni duri eppure necessari, è tratta dalla prefazione di Max Frisch a Siamo italiani. Die Italiener: Gespräche mit italienischen Arbeitern in der Schweiz, (EVZ-Verl, Zürich, 1965, a cura di Alexander J. Seiler, ora in M. Frisch, Gesammelte Werke in zeitlicher Folge, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1976-1986-1988, vol. V, pp. 374-376, e qui nella traduzione di Mattia Mantovani per il volume dallo stesso curato Cercavamo braccia, sono arrivati uomini, Armando Dadò editore, Locarno, 2012, pp. 91-93). Erano italiani, gli uomini dietro le braccia che si volevano per l’economia svizzera – e tra questi, sia detto per inciso, anche il mio nonno materno – negli anni in cui ai Gastarbeitern era proibito il ricongiungimento familiare, con il risultato di famiglie disseminate tra Gela e Zurigo, bambini lasciati nei centri di accoglienza del Nord Italia o fatti entrare di nascosto in svizzera e costretti a vivere celandosi tutto il giorno nei modesti alloggi dei genitori (toccante quel che racconta Nicoletta Bortolotti, nel suo Chiamami sottovoce, HarperCollins, 2018). Storie che ricordo, per amici cresciuti dai nonni ancora fino agli inizi degli anni ’80, lontani dalle mamme e dai papà, o di avventure che sembravano fantastiche, ad ascoltarle allora, con piccoli rannicchiati nei bagagliai di auto non grandi, dietro una vecchia valigia o sotto una scura coperta. E non sono diverse quelle dell’oggi, nel sentire cinico di non comprende le difficoltà mentre guarda, cerca o s’inventa la diversità, e nel dolore della separazione, con l’aggravante di distanze immense e un mare di mezzo a complicare orribilmente le vicende umane.

Anche qui in molti vorrebbero braccia nei campi e nelle officine, ma non uomini dietro queste, a spasso la domenica e nelle ore libere. Ed è l’ipocrisia crudele di chi intende il proprio benessere come diritto di nascita divinamente garantito, di chi ha paura di “snaturare” uno status quo spesso arbitrariamente definito o che al massimo fotografa il momento (“inforestierimento”, lo chiamavano in Svizzera fin dagli anni ’60, e allora i forestieri minacciosi erano gli italiani), ciò che rende molte volte sterile qualsiasi tentativo di analisi oggettiva dei fenomeni.

E che non di rado benevolmente guarda alla xenofobia, quando non apertamente al razzismo.

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