Dell’orrendo dire

«Che aspetti allora? Delle tue parole nulla mi piace, e possa non piacermi mai; e così anche a te tutto di me riesce sgradito. Ma come avrei conseguito gloria più gloriosa, che componendo nel sepolcro il fratello mio? Tutti costoro direbbero di approvare il mio atto, se la paura non chiudesse loro la lingua. Ma la tirannide, fra molti altri vantaggi, ha anche questo, che le è lecito fare e dire quel che vuole». Così Antigone, rivolgendosi direttamente a Creonte minaccioso, nell’omonima tragedia di Sofocle (qui nella traduzione di Raffaele Cantarella, in Sofocle, Edipo Re – Edipo a Colono – Antigone, Mondadori, 2014, p. 291. Per chi volesse trovare nel passo altre sfumature: Τί δῆτα μέλλεις; ὡς ἐμοὶ τῶν σῶν λόγων ἀρεστὸν οὐδὲν μηδ᾽ ἀρεσθείη ποτέ, οὕτω δὲ καὶ σοὶ τἄμ᾽ ἀφανδάνοντ᾽ ἔφυ. Καίτοι πόθεν κλέος γ᾽ ἂν εὐκλεέστερον κατέσχον ἢ τὸν αὐτάδελφον ἐν τάφῳ τιθεῖσα; τούτοις τοῦτο πᾶσιν ἁνδάνειν λέγοιτ᾽ ἄν, εἰ μὴ γλῶσσαν ἐγκλῄοι φόβος. Ἀλλ᾽ ἡ τυραννὶς πολλά τ᾽ ἄλλ᾽ εὐδαιμονεῖ κἄξεστιν αὐτῇ δρᾶν λέγειν θ᾽ ἃ βούλεται).

Ritorno alle parole di un’altra donna, 25 secoli dopo l’opera sofoclea, quella Mariann Budde che esortava Trump alla pietà verso i migranti e, pochi giorni dopo, a proposito del suo sermone, spiegava ai giornali: «I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Siamo tutti noi come i tebani di allora, silenti perché spaventati? E possiamo davvero consentire ai potenti di oggi ciò che l’infelice figlia dell’infelice Edipo diceva della tirannide, che «le è lecito fare e dire quel che vuole»? O è tempo ormai di ribadire che c’è un limite al potere, e c’è un confine pure nelle cose che dai potenti possono essere dette, indipendentemente dal consenso che sulle stesse hanno o credono di avere?

Il politically correct ha avuto i suoi eccessi; negarli è inutile e dannoso, come dannosi (se non altro a giudicare dai risultati elettorali) sono stati proprio quegli eccessi. Il contrappasso che stiamo vedendo manifestarsi in questi tristi tempi è però ancora più nocivo, e mira a intossicare l’aria che noi tutti respiriamo. Il presidente di quella che si credeva la più grande democrazia del mondo non può utilizzare epiteti ed espressioni come quelli che indirizza verso alcune, ben ricercate, minoranze, senza che s’alzi intorno un coro di dissenso e riprovazione, senza che, come diceva Mariann Budde, nessuno dica qualcosa. Non può usare espressioni come «clean out», ripulire, riferendosi ai palestinesi da mandar via da Gaza, senza che urlino nelle orecchie i crimini di altre “pulizie” etnicamente intese, e che nessuno lo contesti lì, subito, sul momento.

Egli non può provocatoriamente disegnare scenari in cui un territorio venga svuotato dai suoi abitanti da decenni martoriati dalla guerra, immaginando al posto delle loro vite balocchi e attrazioni per turisti (progettare resort e stabilimenti balneari sulle macerie dove ancora caldi sono i corpi di decine di migliaia di vittime di 15 mesi di bombardamenti, somiglia sino al voltastomaco alla costruzione del loro angolo di paradiso al limitare del muro di Auschwitz di Rudolf ed Hedwig Höß, nel durissimo e perfetto La zona d’interesse di Jonathan Glazer) senza che i leader di tutte le altre democrazie lo stigmatizzino e lo sanzionino per quelle idee. Non può parlare di «deportazioni» da mettere in campo, non può chiamare «animali» o «non umani» i migranti illegali, senza che nel mondo libero tuoni contro e atterrita all’unisono la voce delle istituzioni, dei cittadini e delle forze politiche tutte. Non potrebbe; invece lo fa, e come quei timorosi sudditi di Creonte, l’Occidente dei diritti tace.

Eppure, la storia dovrebbe avercelo insegnato, che dall’orrendo dire nascono i peggiori frutti. Per questo, potremmo singolarmente far nostro l’esempio della vescova Budde, e non tacere mai, dinanzi a quello che sentiamo. E dobbiamo farlo, anche se ci può sembrare poca cosa la nostra voce contraria rispetto al coro che si leva di quanti, per convinzione o terrore, batton le mani al tempo del potente di turno.

Ancora dalle parole di Antigone, ma questa volta nella versione che della tragedia Jean Anouilh scrisse nel 1942 e portò in scena nel 1944, nella Francia occupata dalle truppe del Terzo Reich e difronte a un pubblico misto di tedeschi e francesi (J. Anouilh, Antigone, ora in Antigone. Variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio-Feltrinelli, 2000-2013, pp. 61-118, cit. p. 93): «Nient’altro che questo, lo so. Ma questo, almeno, posso. E bisogna fare quel che si può».   

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