La memoria di quanto tutto fu il seguito delle scelte dei singoli

«L’occasione del 27 gennaio, il Giorno della Memoria, viene molto spesso utilizzata per ricordare non solo la tragedia degli ebrei d’Europa, ma anche e soprattutto per riaffermare uno dei tanti luoghi comuni così diffusi nell’opinione pubblica italiana, e cioè che dietro ogni ebreo strappato alla deportazione e alla morte vi era una rete di italiani non ebrei che misero in pericolo la propria vita per porre al riparo le vittime. Puntualmente, ogni 27 gennaio le televisioni ritrasmettono film e fiction che esaltano gli eroi italiani, personaggi che sfidando ogni sorta di pericolo hanno salvato decine, a volte centinaia di ebrei. Ogni 27 gennaio viene quindi riaffermato e ribadito il mito degli “italiani brava gente”, una delle leggende più radicate nella memoria collettiva del nostro Paese. Eppure una analisi più approfondita dei fatti dimostra una storia molto più complessa e molto meno consolatoria di quella raccontata nei film. […] Per quanto efficienti, i comandi della polizia tedesca avevano troppo poco personale e furono quindi costretti ad appoggiarsi agli italiani. Tra il 13 e il 30 novembre (del 1943, n.d.r.) la Rsi, inoltre, proclamò tutti gli ebrei “stranieri” e “nemici”, e ne ordinò l’immediata incarcerazione in campi di concentramento costruiti ad hoc. Ma non fu soltanto la politica ufficiale della Repubblica a essere di aiuto. Anche la collaborazione spontanea di migliaia di “italiani comuni”, di normali cittadini, fu fondamentale per l’arresto di migliaia di ebrei. I poliziotti tedeschi sfruttarono ampiamente i collaboratori italiani: spie, delatori, infiltrati, che agivano nei modi più diversi. Questo lavoro veniva pagato piuttosto bene, dato che su ogni ebreo, in media, veniva messa una taglia di 5.000 lire dell’epoca».

Scriveva così, nel 2016, Amedeo Osti Guerrazzi sulla Stampa. Sull’edizione torinese della Repubblica, il 21 ottobre del 2018, Francesca Bollino, a proposito di una mostra organizzata dal Comune sugli orrori delle leggi razziali, ricordava come ci fu «uno zelo tutto torinese nell’applicare la direttiva sulla razza. L’immagine – o il mito – della Torino antifascista, città tradizionalmente fredda nei confronti del duce, resta piuttosto scalfita». «Già ad agosto», continuava l’articolo di Bollino sui fatti di quel nero 1938, «e quindi ben prima dell’entrata in vigore delle leggi sulla razza, l’amministrazione aveva fatto richiesta a tutte le scuole di inviare gli elenchi degli alunni per i quali le famiglie avevano chiesto l’esenzione dell’insegnamento della religione cattolica, con la presunzione che si trattasse di ebrei. Lo stesso vale per gli insegnanti. E tutte le scuole rispondono, con tragica prontezza». E c’è un passaggio, nella ricostruzione della giornalista, che fa davvero riflettere su quanto possa essere realmente «banale» il male, quasi fosse un lavoro fra gli altri. Da Roma chiedevano con insistenza i dati a tutto il Regno, autorizzando anche i comuni ad assumere personale o a pagare gli straordinari. A Torino si erano portati avanti, con una delibera del Comune del 3 ottobre, oltre un mese prima dell’emanazione delle norme della vergogna, che finanziava i costi per il lavoro in più dei dipendenti impiegati nel censimento, i quali, si poteva leggere nel testo del provvedimento esposto durante la rassegna del 2018 dell’archivio storico cittadino, «hanno lavorato con enorme zelo, la sera, durante i giorni festivi, per arrivare a raccogliere quanti più dati possibili».

Entrambi gli articoli citati, nel loro titolo, utilizzano l’aggettivo «volenterosi», per indicare delatori e spioni, con un chiaro rimando all’opera di Daniel Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto (Mondadori, 1997, titolo originale Hitlers Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, 1996). In quel testo, il già professore di Harvard cerca di spiegare quale società tedesca fosse quella in cui “la soluzione finale”, prima che messa in atto, poté essere detta, come mai si potette affermare che alcuni uomini fossero “subumani”, perché si riuscì a praticare esclusioni e marginalizzazioni, angherie e vessazioni prima che gli ebrei fossero portati nei campi di concentramento, quando tutti potevano vedere che a loro erano tolti diritti e possibilità che gli altri avevano garantiti. Eppure, nessuno si oppose, anzi.

«Ridevano», dice Helen Mirren nei panni di Maria Altmann in Woman in gold, bel film del 2015 diretto da Simon Curtis sulla storia vera di una ricca famiglia ebraica viennese nel dramma della Shoah. Ridevano, gli austriaci, nel vedere loro, benestanti, spogliati di tutto e trattati come “non umani”, appunto. Applaudivano all’Anschluss e all’ingresso delle truppe del Reich. Festeggiavano il diventare parte attiva del folle e criminale sogno di Hitler. Come ridevano, applaudivano e festeggiavano i tedeschi. E come ridevano, applaudivano e festeggiavano gli italiani.

Nel 1938, a Trieste, Mussolini parlava della “questione della razza” dal punto di vista fascista, in una Piazza dell’Unità d’Italia strapiena di gente estasiata e rapita da quelle parole, da quei discorsi sulla superiorità di alcuni uomini rispetto ad altri. Gli stessi argomenti da cui generò l’Olocausto, per i quali discese sull’Europa il buio dell’immane tragedia.

E non fu solo questione di “popolino ignorante”, come si potrebbe facilmente immaginare e dire per sedare le nostre coscienze. Degli oltre 1.200 professori universitari italiani di quel periodo, solo una quindicina non prestarono il giuramento di fedeltà al fascismo imposto dagli stessi che stilavano le “leggi razziali” e, in Germania come in Italia, intellettuali di primissimo piano non si opposero alla cacciata degli ebrei dalle funzioni pubbliche e dalle carriere dello Stato, dalle professioni come dalle università, dalle scuole o dagli ospedali, solo perché ebrei.

Oggi è di nuovo il 27 gennaio, e sono passati esattamente ottant’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz ad opera delle truppe sovietiche. Chissà se in questo giorno ci ricorderemo che tutto quel che accadde e che accade, al di là di ciò che il tempo, i costumi e i governi stabiliscono essere la legalità, fu ed è sempre e solo una questione di scelte individuali.

No, nessuna caduta in una forma di esistenzialismo sartriano; sto parlando proprio di responsabilità morale, pratica, effettiva derivante dalle scelte di qualcuno sulla vita reale e concreta di qualcun altro. Non furono le leggi di per sé a segnalare, segregare e poi crudelmente sopprimere gli ebrei.

Furono esseri umani, singoli che nella loro assoluta libertà decisero così.

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