Una premessa: al punto in cui siamo arrivati, felicemente sintetizzato da una battuta sentita l’altra sera in un bar di Roma, “se vanno avanti così, il prossimo Consiglio comunale lo fanno a Regina Coeli”, l’onestà o meno di Marino non è più il perno su cui far reggere l’amministrazione capitolina. La domanda, semmai, è se quella maggioranza e quell’assemblea, nel complesso e al di là dei singoli, è la miglior garanzia per l’immagine e il governo della città.
Ciò detto, un ministro della Repubblica non è un avventore qualunque in un esercizio pubblico, tanto meno un commentatore qualsiasi che scrive sul suo blog; le sue parole hanno un peso e una valenza del tutto diversa e differente. Quindi, quando Maria Elena Boschi, con soave perfidia e portandosi dietro tutti il suo peso nel partito e nel governo, dice a Skytg24 che “Marino è una persona onesta e sta facendo suo lavoro. L’onestà è indispensabile per chi fa politica ma da sola non basta”, allora vuol dire che quel governo e quel partito stanno prendendo le distanze dal sindaco di Roma. Ed essendo anche il partito di Marino e l’asse portante della sua maggioranza, il problema è serio, e la conseguenza chiara. Soprattutto se assessori renzianissimi si dimettono e lo stesso Renzi, raccontano i retroscenisti autorizzati, pensa che così non si possa andare avanti.
Certo, il presidente del Pd e commissario romano Matteo Orfini s’era precipitato nei giorni scorsi a dire che il partito non scaricava affatto Marino ma, come dire, Orfini è pur sempre quello che s’erse a censore morale e duro critico della scelta di nominare De Gennaro alla testa di Finmeccanica, e poi sappiamo com’è andata a finire.
Quello che però francamente stupisce è la visione ribaltata del giudizio. Se un problema c’è o può esserci al Campidoglio in questa storia, è proprio un problema di onestà. Per quello scattano le manette, e qui di questo stiamo parlando. Purtroppo, la tesi della titolare delle Riforme non è nuova. Il segretario del suo partito e capo del Governo di cui è parte, giorni fa, a proposito di eventuali ripercussioni politiche dell’inchiesta “Mafia Capitale” aveva detto che a lui “interessa se l’amministrazione pulisce le strade, ripara le buche, fa i campi sportivi in periferia, mette a posto le case popolari” (quasi che il problema non fosse dannatamente morale, prim’ancora che legale, pure nella realizzazione, quand’anche perfetta di quelle opere), perché questo e solo questo interessa ai cittadini, che votano e quindi decidono chi vince, e che chiedono, come dice ancora la Boschi, “che la città sia gestita bene”. Parole, quelle di Renzi, che spiegano al meglio la visione attuale di quelli che la politica la scelgono per professione: primum vincere, deinde philosophari.
Se ci fermassimo un attimo, però, rischieremmo di scoprire che, in fondo, i problemi spesso nascono proprio da questo approccio. Che è un po’ quanto è stato fatto sul caso De Luca in Campania, e per certi versi anche per la questione della Paita in Liguria, pure se lì poi si è perso. Perché a me sembra che il ceto politico attuale abbia fatto propria la lettura controriformista del Principe machiavelliano e delle sue attribuzioni, giustificando con un fine incarnato dalla vittoria in sé (e dalle relative conseguenze per sé), ogni scelta e qualunque decisione.
E così si attacca Rosy Bindi perché rischia di far perdere, i dissidenti perché non danno una mano a vincere, chi se ne va perché sottrae braccia e voti alla causa del trionfo. Morale, ideali, valori, princìpi, ideologie: tutte cose inutili. Quello che interessa sono le strade pulite, le buche riparate, i campi sportivi… e i treni della metro in orario.