«Le fluttuazioni e le complessità dell’età tardoantica appartengono a un mondo diverso dalle visioni semplicistiche degli ideologi. Quando i nazionalisti fanno appello alla storia, è a una concezione statica della storia che si richiamano. Fissano lo sguardo sull’inizio, sul momento in cui il “loro popolo”, arrivando sulle rovine dell’impero romano, stabilì il suo sacro territorio e la sua identità nazionale. Ma ciò rappresenta proprio l’antitesi della storia. La storia dei popoli europei nella Tarda Antichità e nell’Alto Medioevo, infatti, non è la storia di un momento originario, bensì quella di un processo ininterrotto. È la storia dell’appropriazione politica e della manipolazione di designazioni ereditate e delle rappresentazioni del passato volte a creare un presente e un avvenire. È la storia di un cambiamento incessante, di discontinuità radicali e di zig-zag politici e culturali, mascherati dietro una ripetuta riappropriazione di vecchie parole per definire realtà nuove. I Franti ‘nati con il battesimo di Clodoveo’ non sono i Franchi di Carlo magno o quelli del popolo francese che Jean-Marie Le Pen sperava di riunire intorno al suo movimento politico. I Serbi che comparvero sulle macerie dell’impero degli Ávari non erano il popolo che fu sconfitto nella battaglia del Kosovo nel 1389 e non erano nemmeno i Serbi chiamati da Slobodan Milošević a partecipare al suo progetto di megalomania nazionalista. E gli Albanesi vittime dei Serbi di Milošević non erano gli Illiri dei Balcani del VI secolo. E questo processo non può certo dirsi concluso: i popoli d’Europa sono un progetto in corso, un cantiere aperto; e ciò devono rimanere, sempre.
Allo stesso tempo, la storia dei popoli europei fa parte, essa stessa, del problema dei pregiudizi etnici in Europa. E la colpa è di noi storici, in quanto creiamo miti sui popoli, miti che possono rivelarsi tenaci e pericolosi. Costruendo una storia continua e lineare dei popoli d’Europa, legittimiamo le pretese di quei capi militari e di quei leader politici che affermano di incarnare le più antiche e genuine tradizioni del loro popolo. Dando valore di testimonianza storica ai miti creati dagli autori tardo-antichi o medievali, spesso non facciamo altro che propagare queste affermazioni».
Le parole di sopra sono di Patrick J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa (pag. 156), uscito ormai oltre vent’anni fa e tradotto ed edito in Italia nel 2016 per Carocci. Nelle sue Riflessioni in forma di conclusione, con le quali si congeda dal lettore, lo storico medievalista americano ci dice in fondo una verità che solo gli obnubilati dalla retorica stentano a riconoscere: la storia degli esseri umani è un processo continuo, una lunga evoluzione, uno scambio e rimescolarsi che ha avuto origine nella notte dei nostri tempi e ancora non ha fine. Fotografarne solo un momento e fare di questo fotogramma la propria imperitura rappresentazione della realtà è una menzogna, che ad alcuni conviene raccontare, ad altri fa comodo credere. E non so quale delle due posizioni sia la più triste.
Da anni, ormai, non solo non avverto più alcuna attrazione per l’idea di nazione (attrazione che probabilmente non ho mai avuto), ma comincio a sentire un crescente sentimento di ripulsa al solo nominarsi di quella parola, al palesarsi di quel concetto. Sarà perché più passa il tempo, più incontro e conosco donne e uomini, non connazionali o stranieri, o perché, da atavica esperienza tramandatami da chi mi ha preceduto, so quanto sempre i discorsi che iniziano con la parola nazione finiscano con l’azione violenta, in cui a pagare sono sempre gli ultimi e i più deboli.
Fatto sta che mi si stringe proprio lo stomaco, quando con quei discorsi devo confrontarmi, e mi scaldo e m’accaloro nel combatterli e nel dimostrarne l’illusorietà come in altri casi non mi capita spesso. Anzi, direi che è la discussione che ultimamente «sol m’arde».