Ma cos’è, in fondo, questa vostra “patria”?

Ricordo un mio conoscente, qualche anno fa, apostrofarmi più o meno così: «Tu critichi l’idea di patria perché sei, o peggio ti senti, parte di un’élite culturale, internazionalista e sradicata». Nei suoi occhi, non tanto rabbia o disprezzo; direi compassione. Ora, per citare il cantautore, «a noi cafoni ci hanno sempre chiamati», e sentirmi dare dell’élite, un po’ mi fece sorridere. Se mi trattenni dal ridergli apertamente in faccia fu solo per la considerazione del fatto che percepivo, in lui, una fede sincera in quel che diceva. Però, dal canto mio, proprio non capisco a cosa ci si riferisca, quando si parla di “patria”.

Probabilmente, questo mio sentire è dovuto alla circostanza per cui non saprei proprio a cosa guardare, se mai dovessi provare a dare un luogo a quelle sei lettere. Il mio bisnonno, che nacque già italiano al contrario di suo padre, fatto tale solo in età adulta, ne scoprì una tra l’Hudson e l’East River, e tante genti nate sotto lo stesso sole che mi vide venire al mondo l’han trovata fra valli svizzere o foreste germaniche. Un altro bisnonno, con migliaia di suoi conterranei, difese quella col tricolore sulle cime delle Carniche e delle Giulie, per poi dare ai propri figli e nipoti la possibilità d’esser chiamati «terroni» nelle piane sottostanti ai versanti meridionali di quelle stesse vette. Infine io, che sono nato a un migliaio di chilometri dai cieli sotto cui vivo, e mio figlio, a dieci volte tanto, e non è un modo di dire. Per questo, quando ve ne sento parlare esclusivamente in termini di confini e limiti, non capisco davvero cosa sia questa vostra “patria”.

È un luogo definito? E se sì, da cosa? È una cultura, una lingua, una tradizione? E se sì, quali? Perché i miei avi, anche non molto lontani nel tempo, a stento capivano, di sicuro non parlavano, tantomeno leggevano, l’idioma dei vati che solitamente si indicano quali massime altezze della cultura nazionale. Quanto alle tradizioni, poi, sono fiero che alcune delle loro si sian perse per sempre e pronto a verificare quanto queste, con quelle di altri che dell’identica nazione si dicono patrioti, abbiano mai potuto coincidere.

Non è forse vero, invece, che mille culture negli anni si fondono per dar vita, continuamente, ad altre nuove? E che lo stesso avvenga con i modi di vivere e di agire nel mondo, che solo dopo, a posteriori, chiamiamo “tradizioni”? E le lingue stesse, non sono proprio il risultato della continua e duratura contaminazione fra le parlate degli uomini?

Certo, vi resterebbe sempre la possibilità di definire “patria” il luogo abitato dagli appartenenti alla medesima comunità storica, alla stessa etnia, o razza, per quelli che mai han superato il lutto per il disvelamento della sua inesistenza. Anche in questo caso, però, è proprio la storia del posto in cui vivo, e con me quelli che sarebbero pronti a difendere l’imperitura identità della comunità a cui giurano di appartenere, a far ragione di una simile tesi. Cosa sono, infatti, queste etnie, se non delle invenzioni del momento, per il momento e nel momento – o poco più – in cui vengono pronunciate? Dove sono finite quelle distinzioni che i nostri prodi cognati (absit…) avrebbero giurato di difendere e distinguere, se fossero vissuti qualche secolo fa? Dove i Latini, i Capenati, gli Enotri, i Sabini, i Piceni? E ancora i Goti, gli Alamanni, gli Avari, i Longobardi, i Normanni, gli Svevi, i Saraceni?

E nel mondo intero, quanti altri con la stessa importanza e identica sorte?  

Questa voce è stata pubblicata in libertà di espressione, società, storia e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.