«Sembra quasi tu stia dando la colpa ai popoli vittime delle dittatura, più che ai dittatori loro carnefici». Mi scrive così, un mio caro amico su WhatsApp, commentando il mio post di ieri. Un messaggio che, devo ammetterlo, mi ha molto colpito, soprattutto perché mi è sembrata un’accusa, e che, nel caso, respingo qui come ho fatto in quella conversazione. Però, devo anche ammettere che un fondo di verità c’è, in quello che lui mi scriveva.
Pur senza arrivare alle estreme analisi di un Étienne de La Boétie, è chiaro che, senza l’afflato volontario e irruento di un popolo intero, un dittatore non sarebbe la sciagura che può diventare per il suo Paese e per gli altri, ma solo un pittore fallito un po’ tocco che, al terzo boccale, arringa gli astanti in una birreria, prima che questi, divertiti, lo lascino alle sue follie; se diventa qualcosa di più, è perché in più gli danno credito. Però, anche raccolta che avrebbe un’accolita di facinorosi, è necessario, per farne il potente che può decidere dei destini di tutti, che pure altri si conformino alle sue idee, alle sue parole, a modi con cui intende organizzare la società. «Ma può mai esistere una personalità autoritaria senza conformismo, senza cultura di massa, e cioè senza un’identificazione con un gruppo?», si chiede in suo bel saggio Carlo Bastasin (Viaggio al termine dell’Occidente. La divergenza secolare e l’ascesa del nazionalismo, LUISS University Press, 2019, pag. 132). Effettivamente, la vedo ardua, per quella personalità, se i più, invece che alle sue, si rifacessero alle parole del Bartleby di Melville.
D’altronde, persino contro lo strapotere dello Stato onnipotente e assoluto della macchina nazista, ci spiega Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle (Adelphi, 1990, cfr. pp. 100-105), al singolo altro non è chiesta che una scelta, ed è da queste singole scelte che discende, in fondo, il destino di un intero popolo. Per questo, sempre il filosofo tedesco in quelle sue pagine, dopo la vittoria degli alleati, la scarsa resistenza del singolo cittadino tedesco nutrita in quella sorta di «timore reverenziale» nei confronti dello Stato, formatosi, come carattere nazionale, nei tempi della monarchia prussiana, «sia stata oggetto di una accusa non soltanto generica, riferendosi cioè a una colpa collettiva, ma anche personale – ad esempio riferita al fatto che lui, singolarmente, ha continuato a svolgere la sua professione vuoi di impiegato, vuoi di direttore di orchestra» (E. Jünger, op. cit., pag. 101).
E in una società in cui quel «timore reverenziale» non fu mai dato, la colpa, se possibile, è ancora più grave.