(It’s time to) An european basic income

Scrive Mario Draghi sul Financial Times, in un interessante contributo alla riflessione sul come rispondere all’emergenza coronavirus: «Faced with unforeseen circumstances, a change of mindset is as necessary in this crisis as it would be in times of war. The shock we are facing is not cyclical. The loss of income is not the fault of any of those who suffer from it. The cost of hesitation may be irreversible. The memory of the sufferings of Europeans in the 1920s is enough of a cautionary tale». Grosso modo: «Dinanzi a circostanze impreviste, un cambio di mentalità è necessario, in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non colpa di nessuno di quanti ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. La memoria delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è un monito sufficiente».

E se l’ex presidente della Bce non lo dice apertamente (se non come presupposto non sufficiente per rispondere alle necessità di coloro che perdono temporaneamente il lavoro), proviamo a dirlo un po’ noi, dalla sua sinistra: è il momento di pensare davvero a un reddito di base universale e incondizionato. Magari a livello continentale. Immaginate che cambio radicale di visione del mondo sarebbe, se questa Ue varasse, nel mezzo della più grande e grave crisi che si è trovata ad affrontare, an european basic income. Per tutti, da Helsinki a Lisbona, da Amsterdam ad Atene. A chi ha già un’occupazione o altra fonte di sostentamento economico, in forma di detrazione (per il totale o solo per una parte di esso a seconda dei casi), agli altri, come contributo erogato direttamente sul conto corrente. La somma la si potrebbe stabilire nei diversi Stati di residenza persino in relazione al costo della vita locale (non della cittadinanza del percettore, è evidente), e magari costruendolo mettendo insieme i sussidi, e le diverse voci di questi, che già esistono e sono presenti in quasi tutti i Paesi dell’Unione.

Fantasticherie? Sogni? Illusioni? No: utopia. Proprio come quella di Thomas More. O come lo erano la riduzione del ricorso al lavoro minorile e la giornata lavorativa di otto ore all’inizio del diciannovesimo secolo, o la previdenza sociale per tutti e l’assistenza sanitaria universale poco dopo. Utopie, certo; ma solo perché, nel momento in cui vengono dette, non ci sono nel luogo in cui se ne parla. Non perché non possano essere determinate, o non se ne possano determinare le condizioni perché si concretizzino.

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