Sfogliavo avantieri in libreria l’ultimo lavoro di Sabino Cassese, La democrazia e i suoi limiti, e pensavo alle tante parole che su quel tema, i problemi del regime che da tempo ha scelto la gran parte del pianeta sull’esempio dell’Occidente, si stanno spendendo in questi giorni in cui, proprio in virtù di un altro assioma in questo assunto, quello dell’uguaglianza dei diritti che conduce e sorregge il suffragio universale, assistiamo a fenomeni fino a pochi anni fa ritenuti impensabili, quali l’elezione di Trump alla guida del più grande Paese di quello che un tempo si sarebbe definito «il mondo libero».
Fra queste, mi hanno particolarmente colpito quelle di Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera dello scorso martedì 17 gennaio. Dopo aver descritto il sistema d’istruzione precedente all’attuale, quello vigente nell’età liberale e poi nella prima parte della democrazia repubblicana, in cui, in buona sostanza, le cose funzionavano pure, se non soprattutto, perché le decisioni erano chiaramente orientate dalla responsabilità, e dalla potestà, del ministro competente, in una visione ordinatamente gerarchica, lo storico di via Solferino ne ha poi pianto la scomparsa. «È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta», si legge nel suo editoriale, «per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o “le 150 ore”), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il “6 politico”, il no alla “selezione” o alla “scuola di classe” ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere “libera” e di “contare”. Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato». Che roba, contessa!, verrebbe da dire si nutrissero qui maggiori simpatie per l’onesta aristocrazia dell’epoca che fu di quante se ne riservino all’arrivata, e arrivista, “buona borghesia” che l’ha sostituita.
Intendiamoci, per me la democrazia è un’ideologia come un’altra, che difendo solo perché non ne ho individuato una migliore per cui battermi. E il mio sostegno a essa va principalmente, se non esclusivamente, perché ai cafoni della cui razza son parte è stata data la possibilità di avere alcune cose che prima erano negate, fra queste l’uguaglianza nell’accesso all’istruzione e la possibilità di esercitare la loro quota di sovranità attraverso una scheda elettorale. Ma se tutto questo è proprio quello che ai ricchi borghesi dà fastidio, perché magari eleggono il populista che a loro non piace o perché «anche l’operaio vuole il figlio dottore», ed è conforme ai propri desiderata che vorrebbero la società “democratica”, beh, allora in sua difesa non mi avranno.
Se il mondo a cui pensano i Cassese e i Galli della Loggia è quello in cui i bravi e i meritevoli solamente vanno avanti e decidono per gli altri, e i bravi e i meritevoli sono solamente quelli che hanno fatto le scuole adeguate e seguito il giusto cursus honorum, cioè i loro figli e quelli dei loro amici, per capirci, sarà il loro mondo, appunto, non di certo il mio. E che rischi di perire o minacci di sopravvivere, non mi vedrà muovere un dito a sua tutela: o è mio allo stesso modo che loro, per occasioni, prospettive e sicurezze, o non mi riguarda.
Perché l’altro, quello a cui pensano fingendo di parlar di cose diverse, la mia schiatta lo conosce da sempre. È semplicemente quello in cui «in capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito».
Raramente avevo incontrato tanto disprezzo nei confronti di chi “non ha”, senza nemmeno porsi il problema che potrebbe essere qualcuno “che è”. Nel mondo all’incontrario di Gianni Rodari, Ernesto Galli della Loggia avrebbe vinto il premio Nobel.
Spero che mio nipote (20 anni) non legga l’articolo del Corsera, perché sarebbe un duro colpo ai miei discorsi “moderati”. Tornerebbe a urlare: “Rispettiamo solo i pompieri”. Alla fine convincerebbe lui me.