Il voto e la rappresentanza

«Ministro, vice e tanto Pd: uniti nella sconfitta», titolava l’edizione cuneese de La Stampa nei giorni successivi al referendum sulla riforma costituzionale. E l’articolo di Barbara Morra a commento dei risultati nella Granda iniziava con un lapalissiano: «Otto parlamentari (tra cui un ministro e un sottosegretario) su nove della provincia di Cuneo hanno votato per il “sì”». Ma ha vinto il “no”, con un inequivocabile 54 a 46 per cento. Chiaramente, anche in quel territorio ci sono state diverse aree, e pure lì, il voto fra centro e periferia, città e campagna, ha mostrato delle discrepanze, con i primi più propensi alla riforma e i secondo maggiormente contrari.

Non è ovviamente di quel voto che qui, oggi, a un mese dallo spoglio delle urne voglio parlare. Quelle parole mi sono tornate in mente nel leggere e ascoltare il dibattito che intorno alla legge elettorale si sta sviluppando in questi giorni. Insomma, io non sono proporzionalista per partito preso (anzi, quello a cui sono iscritto, di partito, intendo, non è affatto per un sistema di questo tipo), lo sono invece sempre più convintamente perché un meccanismo nel quale la stragrande maggioranza dei rappresentanti non è rappresentativa degli orientamenti maggioritari nei rappresentati, alla lunga, rischia di non reggere. Il caso della provincia di Cuneo nel referendum, non è unico, ma è significativo. Oltre il novanta per cento dei parlamentari espressione del territorio hanno votato e sostenuto una riscrittura della Costituzione che circa due terzi della popolazione di quella stessa realtà locale ha respinto. La questione del rapporto fra eletti ed elettori, se non sul piano istituzionale, su quello politico si pone come ineludibile.

E la circostanza per cui si parli di riforma della Carta, se possibile, aggrava ancora di più le circostanze in cui tutto avviene. Perché in quel testo dovrebbero essere comprese e ricomposte le diverse espressioni della società e della comunità, del Paese che nel Palazzo è proiettato attraverso il Parlamento. Se questo non avviene, il rischio del mancato riconoscimento è alto e la non riconoscibilità degli uni nell’altro è potenzialmente pericolosa per la stabilità e per la legittimazione delle istituzioni preposte all’attuazione “mediata” della democrazia.

Ascoltando le dichiarazioni a favore del cosiddetto “Mattarellum” (legge che credo debba la sua fortuna più alla miseria che l’è seguita che non ai fasti di cui fu portatrice), non posso non fare alcune considerazioni di una banalità per me evidente. In una situazione in cui ci sono almeno tre poli, è probabile che il vincitore dei diversi collegi elettorali non raggiunga, in ciascuno, la maggioranza assoluta dei voti, ma, semplicemente, arrivi primo rispetto agli altri. Il risultato, nell’ipotesi, sarebbe che, in ogni collegio, il rappresentante eletto sia stato non-votato dalla maggioranza reale degli elettori, che ne avranno preferito un altro candidato.

Certo, mi si potrebbe rispondere che in altre nazioni questo avviene da tempo, per esempio in Inghilterra, dove il sistema è totalmente maggioritario, senza nemmeno una quota di ripartizione proporzionale dei seggi, e lì, ad esempio, alle ultime elezioni generali per il rinnovo della Camera dei Comuni, il partito conservatore ha conquistato la maggioranza nell’Aula con appena un terzo dei suffragi calcolati su base nazionale. «Infatti!», risponderei a quell’osservazione: quando si è trattato di scegliere se rimare o uscire dall’Unione Europea, un parlamento in gran parta favorevole al remain si è trovato contraddetto dall’ondata popolare del leave.

Tutto questo mi rimanda a un altro ricordo, quello di una passeggiata con un amico fatta nel corso del paese dove son nato. Lamentava, lui, il fatto che al mercato, nel bar, in piazza, l’ottanta per cento delle persone che incontrava, se non di più, si dichiaravano contrarie all’azione e alla politica dell’amministrazione comunale, aggiungendo di non averla votata, nessuno di loro, quasi che a votare per il sindaco eletto fossero stati solo due, o meno, elettori su dieci. “Già”, commentai, “hai ragione. Il problema è che è proprio così, nelle proporzioni e con i rapporti che dici”.

Era ed è così perché quando, nel 2012, a Stigliano, centro al di sotto dei 15mila abitanti e quindi con un sistema elettorale maggioritario, si votò per il rinnovo dell’amministrazione comunale, a competere fra loro vi furono 4 liste. Quella che vinse ottenne il 26,94%, le altra, a seguire, il 26,28, il 21,65 e il 21,22. Considerando poi che si recarono alle urne solamente il 66,09% degli aventi diritto al voto, il risultato della lista vincente corrisponde, nei fatti, al consenso effettivamente espresso da appena il 16 o 17 per cento degli elettori.

L’uno o i due cittadini su dieci che il mio amico incontra al mercato, nel bar, in piazza.

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