Per l’alternativa, contro l’oligarchia

C’è un segno strano che sottende tutte le riforme più caratterizzanti di questa stagione di governo. Certo, si scorge un piglio autoritario e uno spesso immotivato decisionismo frettoloso, ma a guardarlo meglio, in fin dei conti, è solo il fenomeno di una sostanziale autonomia del politico intesa come oligarchia dei politici, col rischio sempre costante di sfociare nell’autocrazia del più potente fra questi.

Sul riordino del mercato del lavoro e l’abolizione, nei fatti, dello Statuto dei lavoratori, non si è minimante tenuto in conto il parere di quelli che dovevano subirli; sulla riscrittura della Costituzione e della legge elettorale, neanche a dirlo, costituzionalisti ed elettori non è passato nemmeno in mente d’ascoltarli; sulla riforma della scuola, non si vuole minimante considerare il merito delle proposte di chi poi dovrà attuarla. L’ascolto è solamente quello, un ascoltare senza conseguenze, appunto, come lo stesso presidente del Consiglio si è premurato di spiegare agli insegnati con il solito tweet. È come se i governanti e i governati non fossero due aspetti della stessa società, ma altrettante realtà fra loro non comunicanti e senza alcuna relazione, se non la subordinazione della seconda rispetto alla prima.

Il perché di questa strana sindrome, secondo me, è da ricercarsi nella narrazione, pardon, nello storytelling, potenzialmente autoavverante, che da tempo ci racconta di come non ci siano alternative. Vivendo nella considerazione che questa sia la realtà immodificabile, quelle nemmeno vengono più cercate. Di conseguenza, chi sta al governo si ritiene non sostituibile, proprio perché ciò comporterebbe la possibilità di quell’alternativa che ideologicamente viene esclusa, e pertanto non è disposto a dialogare con quelli che vede come ineluttabilmente suoi governati. Che poi, è la radice di ogni potere ab solutus, sciolto dalle leggi, da relazioni di dipendenza e riscontro e, ça va sans dire, dalle conseguenze degli scenari eventuali e determinabili dalle consultazioni elettorali.

Ora, sappiamo che convinzioni assolutiste possono far perdere la testa, però anche volendo star lontani dalle truculente immagini montagnarde, il problema si pone e non è di banale soluzione. Quanto può durare, in definitiva, un sistema che si professa liberalmente democratico, ma si delinea sempre più come una democrazia dell’ineluttabilità? Per dirla diversamente: ha senso il volere degli elettori, se questi possono realmente volere una cosa sola? Perché stupirsi che sempre di meno si avvicinino agli strumenti di partecipazione, se già in partenza sanno che tutto è prestabilito?

Ecco allora che lavorare alla costruzione dell’alternativa non è un capriccio di dissidenti sempre pronti a distinguersi stando in minoranza (cosa che, peraltro, se pure fosse vera, non sarebbe secondaria in un Paese dove, a grande maggioranza, impera l’anelito di correre in servizio del potente e conformarsi al volere di chi governa), ma rappresenta l’unico modo per salvare la sostanza della democrazia.

Un compito, insomma, che dovrebbe star a cuore ed essere nelle corde di qualsiasi democratico che tale sia per sostantivo, non per mero aggettivo, di partito o di facciata ch’esso sia. Ne va della qualità del sistema, ne va della sostanziale libertà di ognuno di noi, che è reale solamente se è possibile inverarla e praticarla nella scelta.

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