Per un 8 marzo di cambiamento

L’otto marzo è ricorrenza, certo. Ma dovrebbe essere anche momento di riflessione su quel che è stato e ciò che è, per capire cosa si deve e si può cambiare e come. Perché nel mondo la condizione della donna è ancora drammatica, con punte che fan stringere il cuore anche solo a pensarle. Ed è spesso triste pure in questa parte di globo che si vuole progredita, per una violenza fisica inaccettabile a una culturale purtroppo sovente accettata.

L’ipocrisia della nostra civiltà è quel qualcosa che sfrutta il genere femminile, fingendosi teso a una parità di cui non gl’importa assolutamente nulla. Per il capitale, la donna è una risorsa solo nel senso in cui si può mettere a valore, in questo senso valorizzandola, in diversi contesti: usandone la volontà di riscatto all’interno di logiche che spingono ad accettare condizioni e salari più sfavorevoli presentati come possibilità di affermazione; facendo leva sui sentimenti e sulla disponibilità alla cura, per doppi lavori fuori e dentro la famiglia; rendendo la sua immagine un veicolo per la gestione dei desideri, incidendo sul suo corpo i codici del marketing e della pubblicità.

Quest’ultimo aspetto, in una società ammalata di bramosie inesauribili, è forse il più preoccupante perché maggiormente pervasivo e difficilmente individuabile. Diventa normale vedere foto di donne, più o meno vestite, utilizzate per vendere qualsiasi prodotto. E diviene terribilmente usuale associare quell’immagine a quanto venduto con questa venduto, pensando che in vendita sia essa stessa, non solo i prodotti e i servizi veicolati con quelle reclame. Il lato triste dell’intera situazione è rappresentato dal fatto che nessuno vi trovi nulla di scandaloso, che venga considerato normale, e che anzi sia chiamato bigotto chi prova a fermarsi e ragionare sul fatto che quella mercificazione dell’immagine finisce col coincidere col farsi merce per vendere, e vendersi, della stessa donna come concetto e quindi come persona.

L’inestricabile assetto di un senso comune in cui immagine e prodotto sono inscindibilmente collegati, fa sì che le peculiarità dell’uno si uniscano e fondano con quelle dell’altra. E così, se il prodotto deve per forza rientrare nella sfera dell’assoggettamento alla proprietà, questo accade anche per l’immagine e, in una malata consequenzialità, per chi essa rappresenta. Ci si trova così dinnanzi a una perversa allucinazione di massa, funzionale e indotta dal sistema economico, che sposta i termini del discorso dei rapporti umani in un’unica dimensione: quella dello scambio delle merci. Ciò che dovrebbe essere dono viene inteso come frutto, comunque e in ogni caso, di una transazione; da lì a estendere quel concetti all’intero essere umano che vi è rappresentato, il passo è così breve che in tanti lo compiono troppo spesso.

Non c’è ritorno? Tutt’altro: ci può essere evoluzione. E giornate come questa, che ricordano donne bruciate vive perché considerate merce fra le merci, possono servire a quel cambiamento necessario. Che interessa tutti: chi deve sottrarsi alla tirannia della vendita e quanti devono ribellarsi alla dittatura dell’acquisto, evitando di premiare coloro che, per vendere una crema dopobarba o una vernice antirombo, non trovano di meglio che legare il loro prodotto all’allusività di desideri d’altra natura.

Buon 8 marzo, allora, e che si riesca a far di domani un mondo migliore per tutte e tutti.

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