Quindici giorni fa, il presidente del Consiglio dei ministri si è detto “molto preoccupato” nell’apprendere degli oltre cinquecento licenziamenti all’Ast, l’acciaieria di Terni gestita dai tedeschi della ThyssenKrupp. Preoccupazione comprensibile e non solo sua.
Da un’indagine condotta da Deloitte con la collaborazione di Eurisko, e presentata a Milano nel corso del convegno “Strategy Council, le sfide per la Crescita. Innovazione, Imprenditorialità e Occupazione”, emerge che negli ultimi vent’anni le imprese tecnologicamente avanzate hanno generato una domanda di lavoro inferiore a quanto accadeva prima, e quelle tradizionali, per rimanere competitive, sono state costrette a tagliare posti di lavoro qualificato. Tutto ciò, e come potrebbe essere diversamente, determina una sempre crescente sfiducia nel futuro, aumentando gli effetti recessivi della crisi.
La settimana scorsa, nella città in cui vivo, ha fatto molto discutere la previsione di una riorganizzazione della Bre, banca del gruppo Ubi, con la chiusura di alcune sedi anche in realtà importanti della provincia come Cuneo, Alba e Mondovì e, sebbene senza rischio di licenziamento, la ricollocazione in altre o a funzioni diverse di 200 dipendenti in esubero, che tradotto, significa che alla loro fuoriuscita, per pensionamento o altro, quei posti e quelle occasioni occupazionali probabilmente non ci saranno più. Uno scenario tutt’altro che roseo, che giustamente non fa dormire sonni tranquilli agli interessati e all’intero territorio.
Tre notizie che a me fanno venire la pelle d’oca, pensando alla situazione degli interessati, direttamente o potenzialmente, e confermano i miei dubbi sulla direzione verso cui la nostra società e il suo sistema economico si sono incamminati, con un liberismo selvaggio e irrispettoso della vita delle persone che ci sta spingendo in un baratro davvero inquietante. Però, guardandomi intorno, non posso fare a meno di chiedere a tanti: “scusate, ma non è quello che volevate?”.
Mi spiego meglio: non volevate che gli imprenditori si sentissero liberi di poter licenziare, perché solo così avrebbero potuto rilanciare le loro attività e far riprendere l’economia? Non dicevate che il progresso tecnologico, di per sé solamente, avrebbe portato occasioni irripetibili di crescita economica e benessere? Non sostenevate che il demansionemento e il blocco del turnover fossero una pratica ovvia nei percorsi di ristrutturazione e per rispondere alle mutate e continuamente diverse esigenze di mercato? Se non c’è alcuna contrapposizione fra gli interessi del padrone, pardon, dell’impresa e quelli del lavoratore, qual è il problema? Quelle ristrutturazioni e quei cambi di modello organizzativo dovrebbero essere ciò che chiedevate, o sbaglio?
Perché quando si parla di “possibilità di licenziamento”, si parla anche dell’eventualità che siate voi a perdere il posto di lavoro. E quando si dice che “la competizione premia il merito”, vuol dire che se non siete voi quelli a essere premiati, dovete farvene una ragione. Così come, quando si gioisce perché “le innovazioni tecnologiche mandano in soffitta il vecchio” e “solo chi è in grado di rinnovarsi e adeguarsi può rimanere sulla scena da protagonista”, vuol dire che, nel caso siate voi a non riuscirci, è colpa vostra.
Perché, o quegli operai sono vecchi arnesi del passato, quei bancari, antichi funzionari non più impiegabili, e quanti non riescono a trovare un’occupazione nel mondo contemporaneo, persone che non hanno le giuste competenze, oppure è il sistema intero che necessita di un ripensamento, arrivando anche a ragionare sulla distribuzione del lavoro e della ricchezza, e fino a prevedere forme concrete di reddito minimo e di cittadinanza.
Ovviamente, si può anche perseguire sulla strada e lungo il cammino seguito negli ultimi trent’anni e, quando le cose non vanno bene, si può sempre continuare a dire, come è stato fatto e pure con discreti successi elettorali, che “la colpa è dei sindacati, della sinistra, dello Statuto dei lavoratori, eccetera, eccetera, eccetera”.