Un anno dopo il giorno seguente

E così, è trascorso anche questo strano giorno della memoria. Come in tutte le cerimonie del ricordo che si rispettino, pure in questa c’è stato il saluto delle autorità, i discorsi seri, la commozione compunta nelle parole e nei gesti. Solo che a Lampedusa, ieri, qualcosa stonava.

Stonava, ad esempio, il fatto che l’evento che veniva ricordato non era uno di quelli che si perdono nel tempo, ma di un genere diverso, di quei ricordi che non puoi dimenticare, semplicemente perché ce l’hai lì davanti agli occhi ogni giorno, continuamente, ancora e di nuovo. Come ha detto un pescatore triste e arrabbiato: “qui a Lampedusa, sono quindici anni che è il 3 ottobre”.

Già, perché l’altra cosa che stonava era la coincidenza per cui, mentre i più alti rappresentanti d’Europa e d’Italia facevano pubblica ammenda per aver spesso guardato dall’altra parte, nello stesso momento, mezzi militari e civili, corvette, mercantili e pescherecci, cercavano disperatamente di soccorrere altri tremila naufraghi dell’esistenza, prim’ancora che nei flutti, e un centinaio di questi affondava, morendo, a qualche miglio dalle coste libiche, e chi parlava, ovviamente, stava guardando e continua a guardare da un’altra parte.

E poi, stonava il fatto che, in una giornata del ricordo, il convitato di pietra fosse l’oblio. Quello che ha fatto dimenticare le parole altisonanti del giorno dopo la tragedia sulla necessità di superare le leggi assurde per l’immigrazione, che rimangono tutte là, come rimangono i Cie e quei politici che urlano all’invasione o che continuano a etichettare i migranti con sprezzanti termini razzisti. Quello che fa ignorare che l’Europa, pronta a festeggiare la caduta di un muro, ne stia costruendo di ben più alti e duri per negare la speranza a chi soffre, a Ceuta e Melilla, sulle sponde del fiume Evron in Grecia, lungo il confine meridionale della Bulgaria. Quello che di nuovo farà scordare le ragioni che per cui quelle donne, quegli uomini e qui bambini rischiano di morire pur di provare a sopravvivere, e quelle motivazioni a partire che son mostri dai nomi antichi: miseria, guerra, siccità, carestia, fame.

Oggi è il 4 ottobre, un anno dopo quel giorno seguente al naufragio di 366 migranti al largo di Lampedusa; trecentosessantasei, un anno e un giorno. Si disse mai più, e lo si ascoltò senza troppa convinzione. La soluzione è stata l’arretramento della linea d’intervento degli aiuti, “perché invogliavano alla partenza”, dicono, “perché quello che accade lontano dalle telecamere, non ci riguarda”, pensano. Dopotutto, “qui c’è la crisi, non si può provvedere anche a loro.

Già, la crisi. Bisogna pensare prima a noi, ai nostri, che diamine, non possiamo mica occuparci di tutti. In fondo, in un mondo che impone competizione, alla fine, quelli che arrivano, sono pur sempre concorrenti, potrebbero aggravare la situazione. Anche per loro, sia chiaro; bisogna essere concreti, l’idealismo non dà da mangiare.

Magari è così. Però, voi che parlate di competizione e di tutte le altre giaculatorie che la sempre gravida mitopoiesi attuale partorisce e annuncia con tronfia vacuità, come concorrenza e meritocrazia, pensateci “voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici”: qual è il nostro merito per essere nati su questa sponda di quel mare?

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