Garantismo per i garantiti, giustizialismo contro i giustiziati

“Non è intenzione di questo Governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia”. Sono le parole con cui il ministro per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi ha risposto all’interrogazione presentata alla Camera dal M5S sulla nomina di Francesca Barracciu a sottosegretario alla Cultura.  E sono anche la migliore puntualizzazione dell’ovvietà che il Governo poteva fare. Ovviamente, è chiaro che non è intenzione di questo Governo chiedere le dimissioni a dei suoi componenti  solo perché indagati, dato che lo erano anche prima della nomina e quella condizione si è volutamente ignorata nel conferire l’incarico.

La ministra, però, tenta retoricamente di spostare l’asse della questione. Dicendo che non si vuole chiedere le dimissioni di nessuno sulla base di un avviso di garanzia, è come se dicesse “non è che se uno è ministro e viene indagato, solo per quello deve dimettersi, altrimenti si lede il principio di garanzia, per cui proprio quell’atto, l’avviso appunto, è istituito”. Ma la retorica è arte suadente, e spesso, nei neofiti, porta ad esagerare, tanto che s’insinua fra le parole del retore estemporaneo il grimaldello per far saltar l’impianto costruttivo della propria tesi. Infatti, prim’ancora che si spegnesse il suono del dittongo finale di “garanzia”, l’esponente dell’esecutivo già aggiungeva “ma, eventualmente, per motivi di opportunità politica”. Nemmeno Aristofane avrebbe osato così tanto, o forse, semplicemente, qualcuno s’è scordato d’indossare i cenci di Telefo.

Proprio nella coordinata aggiunta dalla ministra, si trova la contestazione migliore della tesi contenuta nella principale. Se per motivi di opportunità politica si possono chiedere le dimissioni di un componente del Governo, per gli stessi non si dovrebbe evitarne la nomina? Perché quei procedimenti erano tutti avviati prima del conferimento degli incarichi, tanto che avevano portato all’impedimento della candidatura della Barracciu alla presidenza della Regione in Sardegna o alle dimissioni di Vito De Filippo, altro sottosegretario indagato, da presidente della giunta regionale lucana. E sempre per “motivi di opportunità politica”, non per altro. In cosa differisce l’opportunità a livello regionale da quella a livello nazionale? Non è delle stesse persone e delle medesime indagini che stiamo parlando? Ma la domanda, lo ammetto, è anch’essa retorica.

Il fatto è, come ha detto la ministra, che il Governo fa professione di garantismo. Ma il dramma, e quindi cambiamo il registro teatrale, è che l’applica solo ai garantiti.

Già, perché l’Italia del garantismo e della presunzione d’innocenza quando si parla di maggiorenti e poteri, è anche il Paese dell’abuso della carcerazione preventiva quando si tratta di miserie e disgraziati. E mentre Matteo Renzi, in veste di presidente del Consiglio incaricava il ministro Boschi di spiegare all’Aula il valore dell’avviso di garanzia a tutela dell’indagato, in qualità di segretario del suo partito, faceva dire alla responsabile giustizia Alessia Morani, intervenendo nella discussione sulle misure “svuotacarceri” per alleggerire i problemi relativi alle condizioni dei detenuti, che “Il Pd ritiene i provvedimenti di clemenza inefficaci”. Una posizione ribadita anche durante il dibattito sulle misure di clemenza dopo le parole di Napolitano e il suo richiamo alla dignità dei detenuti, nel quale la stessa relatrice di maggioranza, Donatella Ferranti, ha voluto sottolineare che queste “senza dubbio rappresentano rimedi di immediato impatto deflattivo, ma implicano da parte del Parlamento e delle forze politiche un’assunzione di responsabilità politica di cui bisogna essere ben consapevoli”, aggiungendo, poi, che “occorre affiancare le misure strutturali con l’attuazione definitiva del piano carceri e recuperare l’intero sistema penitenziario gravemente depauperato in termini di risorse umane ed economiche”. Come dire, quando si parla di esecuzione della pena, il linguaggio può essere solo declinato sui temi di “più mura, più sbarre, più guardie”.

Ma non è tutto. Finalmente, anche l’Italia, per ora solo con l’approvazione al Senato, avvia il riconoscimento del reato di tortura. Ma lo sbiadisce, facendone un reato comune, prevedendo, se a commetterlo è un pubblico ufficiale, solo una circostanza aggravante. Come se la necessità di pensare l’istituzione di un tale reato non fosse in qualche modo dovuta anche agli abusi della forza da parte delle istituzioni, penso a Genova nel 2001, ma anche ai tanti casi in cui esseri umani affidati alle cure del regime penitenziario per quelle ci siano morti. Fatti che da soli avrebbero reso necessario fare della tortura un reato specifico e collegato all’abuso di potere. Proprio per quei valori di garanzia, che quando servono a tutela di loro colleghi, i politici innalzano sempre, quasi fossero il tricolore dei principi sventolato dalla Marianne nel quadro di Delacroix.

Il problema, è che siamo sempre alla doppia misura, alla diversa valutazione, al differente orientamento dei detentori del potere, che si fanno garantisti con chi è già garantito dalla propria condizione agiata e dalle sue maggiori agibilità, mentre diventano giustizialisti con chi già è stato giustiziato dalle sue disgrazie, dai suoi errori, dalla sua vita.

Ma che volete farci, questo è il Paese ed il tempo che ci è toccato in sorte, e non ci sono alternative, giusto? Qui si deve convivere con l’abuso della carcerazione preventiva per “drogati” e “clandestini”, mentre serve il quarto grado giudizio (tre normali più il voto dell’Assemblea d’appartenenza) per eseguire la pena su un parlamentare. Qui si deve assistere alle professioni di fede nel principio della presunzione d’innocenza se si tratta di ricchi arricchitisi contravvenendo palesemente ad ogni regola, mentre si ascoltano incitare al linciaggio e alla gogna per i soli sospettati di reato. Qui si deve aspettare l’esisto di tutti i procedimenti previsti dalle leggi se ad essere accusato è chi ha fatto quelle stesse leggi, mentre gli stessi legislatori invocano la pena di morte per gli infanticidi, perché pur di guadagnare il rumore della cronaca non esitano a cavalcare i peggiori rigurgiti sul più infamante e doloroso dei crimini.

Noi qui siamo, e ci siamo arrivati non perché non ci fossero alternative, ma perché abbiamo scelto la lingua che parla alle pance invece che alle teste, perché abbiamo seguito la facilità del consenso evitando le complicazioni del confronto, perché abbiamo delegittimato la civiltà del diritto, facendone uno strumento di difesa per chi ha risorse e disponibilità e di offesa contro chi non ha nulla da offrire o da spendere, riducendolo, in definitiva, a strumento d’ingiustizia.

Si può uscire da questo stallo? Ovviamente sì, si potrebbe. Ma chi ne ha voglia? È una fatica che non porta consenso, non porta ricchezze e non darà onori nell’immediato: nella civiltà della pronta spendibilità del risultato delle proprie scelte, fatte di slogan buoni per l’oggi e da dimenticare domani, chi ha il tempo e il coraggio di prendere le cose con calma e fermarsi a ragionare?

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