Dalla propaganda alla pubblicità: come la politica divenne prodotto

C’era una volta la propaganda. Era il tempo in cui il messaggio contava di più di chi lo riportava. Era l’epoca in cui esistevano sì i leader, i trascinatori, ma sempre dopo, sempre insieme al messaggio. Era il mondo in cui le ideologie, le architetture pesanti e pensanti, gli apparati culturali interpretavano il reale, ed il messaggio doveva inserirsi in quel sistema di discorsi più generali.

Poi venne il mondo post ideologico. O meglio, il mondo dove di ideologie ne restava una sola, quella dell’economia di mercato e della triade crescita, scambio e consumo eletta a nuova reggitrice delle sorti universali. Il mondo dove al massimo ci si poteva dividere nell’attribuzione degli aggettivi ai termini del discorso unico (sociale, liberista, sostenibile, deregolato), ma mai sulla sostituzione dei sostantivi. Il mondo in cui anche le forze che avevano aspirato alla rivoluzione, all’abbattimento della società borghese, allo stravolgimento degli ordini costituiti, si limitavano tutt’al più a sperare di creare un “partito in sintonia con la società”.

Oggi, non dovendo più promuovere l’accettazione di uno schema di pensiero, la conoscenza di un apparato ideologico, non essendo più necessario lavorare sui sostantivi del racconto, al messaggio politico non serve più la propaganda, basta la pubblicità.

E come quella per vendere accessori, anche la pubblicità per veicolare differenti aggettivi deve essere veloce, immediata, diretta. Meno complessità ci sono nel messaggio, più si è sicuri che questo arrivi a destinazione: “via l’imu”, “quattro milioni di posti di lavoro”, “prima il territorio”, “rottamiamoli”, “tutti a casa”.

Così facendo si perpetua la considerazione degli elettori come immaturi recettori di input basilari, come clienti acritici da blandire con offerte convenienti, magari in saldo di idee e con sconti di pensiero.

Ma, cosa forse peggiore, è che la stessa qualità della proposta politica deve crollare per andar dietro a tali logiche. Fermo restando il principio, quasi fideistico, della non modificabilità dei crismi del pensiero unico al comando, l’offerta politica (perché se mercatale è la logica, tali devono essere i termini) deve piegarsi alle dinamiche del “pronto all’uso”, dell’user-friendly, del prêt-à-porter; l’immediatezza diviene la norma del messaggio, del messaggero e degli effetti che si vogliono determinare.

Se la domanda è per l’oggi, l’offerta non guarda più al domani. L’eterno presente in cui viviamo sfugge alla possibilità d’essere inserito in discorsi costruiti sulle radici del passato e proiettati verso i tempi del futuro. E quindi, bandita ogni idea di cambiamento radicale del modello sociale, economico e di governo, anche le tecniche della vendita del prodotto politico s’affidano alla seduzione, alle arti dell’affascinare, alla creazione di sempre nuovi sistemi di desiderio. Al massimo, s’arriva ad introiettare nell’azione politica qualche principio di customer satisfaction, per fingere di piegare l’azione dei governanti alle esigenze dei governati.

E siccome è nelle campagne elettorali che le logiche di convincimento dimostrano al meglio il loro essere finale, anche in quella che stiamo vivendo in questi giorni il discorso corre sui binari della pubblicità. Ecco, quindi, che il leader politico non è più tale perché riesce a ricoprire il ruolo di mediazione e tenuta delle ragioni diverse che compongono il proprio mondo all’interno della sua narrazione, se sa dare costruzione unitaria a spinte diverse, se è in grado di tracciare un orizzonte futuro alternativo a quello attuale. Un leader diventa tale se sa interpretare al meglio il nuovo ruolo a cui la politica-prodotto lo chiama nei meccanismi pubblicitari: quello di testimonial. Una figura, questa, non più necessariamente ed esclusivamente legata al messaggio che va promuovendo, ma che può passare, come un qualsiasi attore fa con la pubblicità, da un prodotto politico ad un altro, con la stessa resa, la medesima efficacia, e, purtroppo, sovente anche con uguale apparente convinzione.

Si diventa bravi politici se si sa stare sul palco, se si riesce a guardare e condurre nella giusta direzione gli occhi della platea, se si è capaci di dosare i tempi ed i registri del proprio parlare. Ed allora, la battuta diventa cifra del racconto, il coinvolgimento del pubblico l’elemento portante, la seduzione prende il posto della condivisione.

Da anni negli Stati Uniti i politici seguono corsi di derivazione teatrale per apprendere le tecniche del parlare in pubblico, per tenere alta l’attenzione dell’uditorio e guadagnarne l’apprezzamento. Anche in Italia, ne sono convinto, da un po’ di tempo succede altrettanto (quando non sono gli stessi politici a provenire direttamente dal mondo dello spettacolo): diversamente, non riuscirei a spiegarmi la mimica e la gestualità perfette, la giusta impostazione prossemica, la sicurezza con cui ho visto muoversi sul proscenio molti leader nelle loro performance (ché “comizi” non s’usa più).

Ed alla fine del messaggio? Beh, si va a casa, si compra il prodotto nelle urne perché è stato bravo il venditore e poi…che dio ce la mandi buona!

Perché rispetto alle offerte-slogan basterebbe porre alcune semplici domande: come? Perché? In che senso? E quindi?

Ma provate a farle. Sarete tacciati di barbosità inconcludente, d’essere nemici del nuovo, d’esser vittime di chiusure ideologiche.

Il prodotto dev’essere promosso, venduto e comprato. Chi s’oppone a quest’unico verbo è un retrogrado conservatore. E poi, il fine ultimo della pubblicità non è far comprare al più alto numero di persone il proprio prodotto? Se succede, allora vuol dire che funziona bene.

Il dato drammatico, è che ormai si confeziona anche il pensiero politico come un prodotto da vendere. Non più come uno strumento del vivere e del crescere per una collettività, ma come un oggetto da consumare, e che quindi deve incontrare, immediatamente, il favore del pubblico-elettore.

Per far questo, la pubblicità prende direttamente il posto della politica, confezionando per questa ed al posto di questa messaggi e pensieri buoni per essere venduti. S’inseguono i sondaggi come fossero indagini di mercato, s’ascoltano i trend d’opinione per orientare le proprie idee, si cerca di parlare agli istinti e non alla ragione, alla pancia e non alla testa, perché è sul desiderio e non sul pensiero che agiscono le leve della pubblicità. Il vangelo è uno solo, anche in politica: produrre, vendere, consumare.

Il risultato? È che s’è consumata la politica, e quello che ci ritroviamo per le mani ora è un piccolo arnese, buono appena per gestire l’esistente e, se va bene, rimediare a qualche errore.

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