L’accesso all’acqua: servizio o diritto?

       Ieri sera, su invito di due amici, sono stato a Cuneo ad un incontro sulla "Privatizzazione dei servizi idrici". Tavolo competente, con la presenza di Antonio Massarutto, dell’Università di Udine, e Mariangela Rosolen, coordinatrice piemontese del forum per l’acqua pubblica,  moderatore Ezio Bernardi, direttore del settimanale “La Guida”, interventi puntuali, domande precise.
       Durante l'incontro sono state illustrate le novità che il cosiddetto "decreto Ronchi" apporta rispetto alla materia della gestione dei servizi pubblici. Ovviamente le tesi erano due: da un lato c'era chi si batte per la gestione pubblica di alcune risorse fra cui l'acqua (ed allo scopo ha realizzato diverse iniziative che mi trovano d'accordo, ma non è questo il punto); dall'altro, l'argomentazione verteva intorno alla considerazione che dove c'è più concorrenza, anche fra pubblico e privato, con una funzione di controllo reciproco, il servizio e la sua gestione è migliore e più rispondente alle esigenze degli utenti.
      Entrambe le tesi erano sostenute da dati ed esempi, ma qui non voglio aggiungere un'opinione né far la cronaca dell'ottimo incontro.
      Quello che io penso, invece, è che l'argomento del contendere va diversificato. Cioè, anch'io credo, in linea di massima, che la competizione, anche fra pubblico e privato, possa garantire servizi migliori. Ma il problema è mal posto riguardo al caso specifico di cui si discuteva ieri: l'acqua.
       Difatti, proprio la materia del contendere esula da divisioni che possono apparire manichee, come lo stesso moderatore ha notato nel finale dell'incontro, fra gestione pubblica e gestione privata.
       Dico subito la mia: sono per la gestione a totale controllo pubblico. E spiego perché.
      Che l'acqua non sia una merce da affidare alla giungla di un mercato ne sono convinti tutti. Anche i difensori della sua privatizzazione, infatti, non discutono sulla proprietà dell'acqua, che rimane, a parole, un bene indisponibile, ma puntano il dito e l'attenzione sulla sua gestione.
       In sintesi, si afferma da quel lato che l'acqua alla sorgente è libera, ma portarla a casa comporta un lavoro e quindi, divenuta servizio idrico e non più solo "bene", la fornitura dell'acqua può essere trattata alla pari di qualsiasi altro servizio d'interesse pubblico, e quindi può anche essere affidato a gestori privati.
        In definitiva, la proprietà dell'acqua non è in discussione, ma la gestione si.
       Sembrerebbe razionale: il pubblico, se vuole e se riesce, può sfidare il privato e se vince può gestire il servizio idrico; viceversa, se il privato garantisce un servizio migliore e più economico, perché non affidarsi a lui?
        E qui sta il punto: il termine “servizio”. Con tale definizione, implicitamente, si ritorna alla mercificazione dell'acqua. Già, perché non si tratta solo di decidere della natura della sostanza, ma anche di quella della sua fornitura. Cioè, consentire l'accesso all'acqua è dare la possibilità di usufruire di un servizio o, come io credo, è garantire un diritto?
        Se si propende per la prima ipotesi, se si vede nella gestione dell'acqua un servizio, allora tutto è logico, anche ragionare in termini di "costi/benefici"; viceversa, se la fornitura dell'acqua la si inquadra nell'ottica della soddisfazione di un diritto, il discorso muta radicalmente.
        I diritti, infatti, non soggiacciono alla logica economica, a meno di non concretizzare una dittatura mercatista capace di invadere tutte le sfere del vivere civile. Anche l'amministrazione della giustizia potrebbe essere privatizzata per risparmiare, o la gestione delle forze armate e di polizia, o l'organizzazione dell'esercizio del voto. Si potrebbero anche ottenere notevoli risparmi, non lo metto in dubbio. Al limite, proprio nell'ultimo esempio, si potrebbero sostituire le elezioni a favore di più snelle ed economiche indagini di mercato sugli orientamenti dei “clienti” dell'amministrazione pubblica.
        Ma così avremmo derubricato la nostra posizione da cittadini portatori di diritti a semplici consumatori. In un articolo sul mio blog (http://www.filopolitica.splinder.com/archive/2009-03) avevo già discusso di come i numeri non siano e non possano essere la cifra della democrazia, e di come essa, proprio perché deve garantire i diritti "a prescindere" dai costi, si sottragga al gioco economico.
        Con ciò non voglio dire che non bisogna prestare attenzione ai costi e soprattutto agli sprechi che si possono annidare nelle gestioni pubbliche. La questione costi è importante, ma non può diventare limite. Bisogna far di tutto per contenerli, ma non possono condizionare le decisioni quando in ballo ci sono "diritti" e non merci o servizi. Per tornare all'esempio poco prima fatto: quale legge economica giustificherebbe l'allestimento di seggi, la nomina di scrutatori, la stampa delle schede, la raccolta dei voti e tutto il resto in un comune alpino di qualche centinaia di abitanti per le elezioni europee? Dato il bacino elettorale complessivo, i voti lì raccolti sarebbero ininfluenti, ed i benefici, dunque, non giustificherebbero i costi. Però il voto è un diritto, che non c'entra con l'orografia del territorio dove vivo. Ha dei costi? Certo, cosa non è ha. Ma non può ammettere profitto. Anche pagare i giudici ha un costo, fornirsi di un parlamento ha un costo, avere delle forze dell'ordine, degli ospedali, delle scuole ha un costo. E quindi?
        Spesso, inoltre, la gestione pubblica viene criticata per invadenza della politica, intesa come parti e partiti in gioco. E’ una considerazione comune, ma nondimeno è una considerazione non per forza vera Perché se dico pubblica si pensa per forza a politico/partitica? Sono per forza a gestione partitico/politica l’amministrazione della giustizia, le forze dell’ordine, l’esercito? E’ di parte la Costituzione? Anzi, in una visione pubblica, che non significa della maggioranza pro tempore, le regole sono a garanzia di tutti. In una gestione privata l’interesse è di uno solo. Certo, la forza della maggioranza in un dato momento può cambiare e stravolgere le regole a suo piacimento ed interesse (mai momento fu più indicato per tale proposizione), ma è proprio per questo che la forza del pubblico deve imporsi sull’interesse della parte.
        Evitare gli sprechi e le storture è un conto, gestire la democrazia in partita doppia è un altro. La civiltà è un patto, e nel patto democratico c'è l'aggiunta della parità dei diritti e nell’accesso a questi. Se costa di più garantire un diritto in una parte, si sopperisce con i minori costi in un altra, perché il patto è (o dovrebbe essere) solidale. A garanzia dei diritti non possono stare degli interessi economici dei singoli, ma la istituzionalizzazione stessa di quel patto: il pubblico.
        Pubblico che può garantire l'accesso universale ai diritti anche perché il profitto non è il suo obiettivo. Un gestore privato può fare altrettanto?

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