Procedere per analogie nell’era digitale

Viviamo in un tempo strano, dove tutto pare debba per forza orientarsi e trasferirsi su un codice binario, fatto esclusivamente di contrapposizioni e che solamente su queste sa procedere. Un’epoca che spinge alla radicalità più che per convinzione per esclusione; se da una parte c’è il «o con noi o contro di noi», dall’altra ci sarà opposizione o consenso, ma sempre totalizzante. In quest’era forgiata dall’esperienza digitale, andar avanti nello spiegarla per analogie rischia di essere impresa quasi folle, di sicuro rischiosa.

Così, quando nel finesettimana ho preso fra le mani il bel libro di Siegmund Ginzberg, Sindrome 1933 (Feltrinelli, 2019), ho pensato che un azzardo grosso, l’autore, se l’era preso. E che però, in fondo, non poteva fare altrimenti. Leggendolo, non si può non cogliere il senso profondo della sua operazione. Non risolvere la questione dicendo che le destre di oggi sono come i nazisti di allora; sarebbe troppo banale e tanto sbagliato. Dire, al contrario, che nella società, alcune dinamiche possono avere la stessa presa, possono, analogamente a quanto accadde, segnare irreparabilmente il sentire comune. E orientarlo. Verso cosa? Beh, qui non si tratta di fare previsioni: basta guardare quanto sta accadendo.

Negli anni più bui della storia del continente europeo, meglio, nei loro albori, il senso comune sembrava aver irrimediabilmente trovato la causa di tutti i mali negli estranei, negli ebrei. Oggi, con un procedimento non diverso, quell’origine dei problemi è situata negli stranieri, nei migranti. Una tendenza amplificata da alcuni organi di informazione, allora come adesso, con in più, ora, l’amplificazione della portata dei messaggi grazie alle nuove tecnologie, la scelta delle notizie su cui insistere, la vera e propria disinformazione ad uso di propaganda, le fake news dei tempi moderni, le menzogne eternamente usate, i complotti di Soros e i protocolli dei savi di Sion; tutto questo, in una folla agitata, non mescolata, ma irrimediabilmente solitaria, crea una miscela con esiti che possiamo immaginare proprio procedendo per analogie con la storia.

Ancor peggio, in questa e in quella deriva del senso comune, e la rinuncia a contrastarlo da parte di chi non lo condivide. Ugualmente, questo lo si apprende per analogia col già stato, recente e meno, come scriveva il Manzoni, quando parla della peste a Milano nel 1630 e della caccia ai presunti untori, giudicati tali e condannati per vox populi: «Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. “Ho trovato gente savia in Milano, – dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, [Muratori; Del governo della peste, Modena, 1714, pag. 117] – che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi”. Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

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