Perché, se fosse stato “solo” un manifestante?

«Li ho visti arrivare, avevo il cellulare in mano perché stavo facendo qualche foto, mi sono ulteriormente spostato. Ma mi sono arrivati addosso. Ho cominciato a scappare, ma non ne ho avuto il tempo. Allora ho cominciato a gridare, ancora prima che mi buttassero a terra, prima che iniziasse l’incubo. Ho gridato con tutta la mia voce: “Sono un giornalista, sono un giornalista”. Mi hanno fatto cadere e hanno cominciato a picchiare: calci, manganellate, colpi da tutte le parti, non sapevo come pararli, non potevo pararli. E urlavo, urlavo, tiravo fuori la testa dalla posizione fetale che avevo assunto: “Sono un giornalista, sono un giornalista”. Non si fermavano. Ero come un pallone, preso a calci. Sentivo che stavano scaricando su di me una rabbia indescrivibile, avevano un furore irrefrenabile, ero terrorizzato. Allora ho urlato ancora più forte “Basta, basta”. Non si fermavano. Non so quanto sia durato. Mi sono coperto la testa con le mani nude. A un certo punto mi sono accorto che il mio corpo non resisteva più, che non riuscivo neppure più a proteggermi. Lì ho avuto paura di morire. A un certo punto è arrivato un poliziotto, Giampiero Bove, che conosco da molto tempo: si è buttato sul mio corpo, con il casco: “Fermatevi, fermatevi, cosa state facendo, è un giornalista, fermatevi”, ha gridato. Mi ha salvato. Gli sarò per sempre grato. E, come automi, gli agenti hanno smesso e se ne sono andati. Come se il loro furore fosse stato spento, con un clic».

Ha i toni del dramma, il racconto di Stefano Origone, il giornalista finito sotto i manganelli della polizia durante gli scontri seguiti alla manifestazione contro il comizio di CasaPound a Genova, che gli autonomi volevano impedire e i tutori la Questura garantire. E un dramma immagino l’abbia vissuto davvero, in quegli attimi tremendi. Poi l’arrivo del poliziotto buono che lo salva, urlando ai suoi colleghi «fermatevi, è un giornalista». E dopo, le scuse del questore in persona, per lo spiacevole equivoco. Ad Origone va il mio abbraccio più sentito. A tutti gli altri, una domanda: ma se fosse stato solo un manifestate? No, perché, ovviamente, i poliziotti col manganello non sapevano fosse un giornalista. Ma che era disarmato, lo vedevano. Che era finito a terra, incapace di reagire sotto i loro colpi, anche. Che non fosse più in grado di alzarsi e resistere, pure. Senza l’intervento del loro collega, quanto avrebbero continuato? E se questi non l’avesse riconosciuto quale giornalista, quel pestaggio così violento, sarebbe stato lecito?

Mi chiedo ancora, per uno Stefano salvato, quanti altri martiri sono finiti sotto la gomma dura delle suole degli anfibi solamente per essersi opposti a un evento di una forza che per le leggi e la Costituzione che quelle stesse forze dell’ordine hanno giurato di difendere nemmeno dovrebbe esistere? Ecco, perché è nella risposta a quesiti come questi che risiede e si ritrova il senso di una comunità nell’appartenenza alle sue istituzioni. Di questo e per questo, dovrebbe chiedere scusa il questore, e con lui, lo Stato.

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