Per un po’ di pace. O almeno per provarci

«E del criminale che ieri ha quasi ammazzato 50 ragazzini non scrivi niente?», ha scritto in un messaggio a questo blog un anonimo commentatore (a meno che non fosse davvero il personaggio di Star Wars). E che volete che scriva? Raramente commento fatti di cronaca come quello; m’è capitato di farlo per Macerata e per Stoccolma – e le matrici dei due fatti erano di natura diametralmente opposta eppure, in un certo senso, coincidente – e per pochi altri casi. Di solito, invece, cerco appunto di non scriverne.

Perché? Per un personale contributo alla pace. Se non per quella perpetua di kantiana vocazione, almeno per un po’ di tregua qui e ora, o solo per provarci. Sono veramente stanco di quello che vedo accadere, che succeda a Milano o in Nuova Zelanda, davanti a una moschea irachena o durante una maratona nel Massachusetts. E sì, le motivazioni possono essere diverse, ma questa diversità la vediamo solo se ne stiamo lontani, non se si ha paura di morire o se in quegli attentati non si perde qualcuno. Fermiamoci: è una mano di chicken game in cui nessuno sterzerà. E il risultato del conseguente frontale lo conosciamo fin d’ora.

Non riesco a vedere quello che i soloni dell’inevitabilità del conflitto fra etnie predicano da tempo: per un particolare daltonismo, non vedo neri e bianchi, ma solo esseri umani. Che quando muoiono sul marciapiedi d’una capitale europea o nella sabbia d’un deserto d’Africa, d’identico colore arrossano il terreno. Non ha senso, tutto quello che stiamo facendo, l’odio di cui parliamo, la violenza con la quale riempiamo le nostre vite.

Aiutiamoci; nessuno lo farà al posto nostro.

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