«Non possiamo accogliere tutti, tantomeno chi non vuole integrarsi; rischiamo di mettere a repentaglio la nostra identità, la nostra cultura, le nostre radici». Quante volte le avete sentite frasi come queste? Tante, immagino. Ebbene, nonostante le abbia anch’io più volte ascoltate e me le sia sentite ripetere da molti, non per forza buzzurri razzisti, non ho ben capito quale sia, per gli stessi sostenitori, la tesi fondante di simili affermazioni.
Mi spiego meglio. «L’identità è a rischio», che cosa significa? È così debole questa vostra «identità» da dover essere difesa con forza contro i deboli ultimi della terra? Davvero? O ancora, qualcosa della vostra cultura può realmente essere posto in discussione, ad esempio, da un differente modo di macellare gli animali o di coprirsi il capo? Le vostre radici possono sinceramente dirsi in pericolo di recisione dalle preghiera rivolta da altri a un dio diverso, o allo stesso da un tappeto invece che da una panca? È tanto bassa la fiducia che avete nella coscienza di voi stessi da temerne il dissolvimento repentino al solo manifestarsi dell’altro? Se è così, non v’invidio.
La mia tradizione e quella delle genti da cui arrivo non è mai stata nobile e pura; forse per questo non ha mai avuto timore d’esser spazzata via nel farsi presente dell’ineludibile alterità dello stare al mondo. Anzi, con le parole che usò Ernesto De Martino in una trasmissione radiofonica del 1953 (raccolta, con altre, nel volume Panorami e spedizioni. Le trasmissioni radiofoniche del 1953-54, curato da Luigi M. Lombardi Satriani e Letizia Bindi), parlando di alcuni aspetti annotati nelle sue ricerche e spedizioni – usava proprio quel termine, «spedizione» – in Lucania: «figghie son tutte quante: questo è davvero l’augurio più alto, il magico augurio che nel mondo nel quale taluni stanno come se non ci stessero, scritti nel libro degli spersi, tutti possono diventare figli e vivere sempre, in ogni momento della loro vita, gli uni verso gli altri nella commossa eguaglianza della giustizia materna».
E pure a voi, che fate spada contro altri del vostro voler essere collettivo (che non di rado mal nasconde un tradito e inappagato «avrei voluto avere» individuale ed egoistico, spesso ingiustificato dalla piena disponibilità del necessario e dal facile accesso al superfluo) e usate come scudo ciò che è nato per servire e condividere (e se ci pensate, uno scudo altro non è che un grosso piatto rivoltato e tenuto con braccio serrato, invece d’esser girato e offerto a mani aperte), auguro di poter essere figli.