In uno scambio di opinioni via social sul mio articolo che precede questo, nel volermi elegantemente dare dell’incolto e approssimativo demagogo – aggettivi assolutamente precisi per una definizione quantomeno esagerata – , mi è stato consigliato di studiare, indicandomi, per cominciare, Il capitale nel XXI secolo di Piketty. Suggerimenti simili, per mia natura, li accolgo sempre di buon grado. Ma invece che quel libro segnalatomi, nel fine settimana ne ho letto un altro: Elegia americana, di J. D. Vance.
Perché il libro di Piketty l’ho già letto, e anche altri suoi articoli sui medesimi argomenti, raccolti in Capitale e disuguaglianza, cronache dal mondo, del 2017, (trovando il lavoro interessante, ma alcune tesi un po’ troppo assolutorie per tutti; del tipo, «così è, fatevene una ragione, che non è colpa di nessuno», soprattutto, non dei vincenti e di chi ha permesso loro di esserlo, ça va sans dire), perché sullo stesso tema è forse più puntuale e preciso il testo di Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, uscito un paio d’anni prima, nel 2012, e perché, per seguire il discorso sulla povertà nel Paese più ricco del mondo iniziato con la storia di Vanessa Solivan nell’inchiesta di Matthew Desmond di cui parlavo nel post da cui il dialogo nasceva, volevo la voce di qualcuno che quelle cose di cui si racconta le avesse patite, non solo studiate.
Bene, Hillbilly elegy. A memoir of a family and cultur in crisis, titolo originale dell’opera, esce alla fine di giugno del 2016, prima delle elezioni che manderanno Trump alla Casa bianca. E lì già si racconta uno spaccato che quel voto spingerà molti analisti delle due coste a cercare di capire; la crisi, come opportunamente la definisce Vance, di un’intera cultura che aveva sostenuto il modello americano negli anni precedenti. Non è solo l’economia a frenare, è l’intero sogno americano a sbattere contro un muro. Soprattutto per i bianchi non ricchi delle regioni centrali. Gli hillbilly, i bifolchi delle colline, pagano sulla propria pelle il prezzo del cambiamento.
No, non sono più poveri degli altri, non vivono nelle zone e nei quartieri peggiori d’America (sebbene, come ricorda lo stesso Vance citando uno studio della Brookings Institution pubblicato nel 2011, per effetto di quella che prende il nome di «segregazione residenziale», ovvero il rimaner legati senza possibilità di trasferimento al posto in cui si ha la casa, unita alla crisi del manifatturiero un po’ in tutta la nazione, «rispetto al 2000, tra il 2005 e il 2009 era più probabile che gli abitanti dei quartieri più poveri fossero bianchi nati localmente, diplomati e laureati, proprietari di casa che non beneficiano della pubblica assistenza»), non hanno la pancia vuota, anzi, forse è persino troppo piena, per quanto del cibo e delle bevande peggiori, come sanno loro per primi, che infatti odiano Michelle Obama quando gli dice che non dovrebbero dar da mangiare ai propri figli certe cose, come scrive Vance, «non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione». Ma sono quelli che si sentono più traditi dalla promessa non mantenuta del benessere e della sicurezza economica per il futuro.
Gli hillbilly migrati verso le pianure industrializzate del Midwest dalle zone agricole del Kentucky del Tennessee, del West Virginia, pur con tutti i problemi dello sradicamento da luoghi e abitudini, avevano trovato in posti come la Middletown, Ohio, di Vance e in fabbriche e acciaierie come la Armco di suo nonno, quella garanzia di poter far stare i figli meglio di come erano stati loro, anche non dovendoli vedere per forza costretti a usare le mani e la schiena per garantirsi un piatto sulla tavola e un tetto sulla testa.
Così non è stato. La competizione è divenuta più violenta, giocandosi su fattori nei quali poco si aveva la possibilità di intervenire. Perché se sei nato a Middletown da una famiglia operaia originaria di Jackson, Kentucky, mediamente non andrai nelle università migliori, non avrai una formazione adeguata alle richieste del mercato e non potrai lavorare come operaio in una fabbrica che chiuderà per spostarsi in luoghi del mondo dove c’è gente disposta a farlo per meno. E rimarrai lì, legato a quella casa che invecchia e che sfortunatamente hai deciso di comprare, con un mutuo che ora è più alto di quel che essa vale.
In questo ha fatto breccia Trump, sulle emozioni e sul ricordo di un mondo che, almeno per quegli elettori, era sicuramente migliore e con migliori prospettive. «Make America great again» non significa nulla, se lo si legge per quello che è, uno slogan vuoto, appunto. Ma è quello che lì si è sentito a essere diverso; sapeva di riscatto, degli anni rampanti, dello sviluppo. È questo che hanno votato: il sogno d’un passato che è stato grandioso. Non ritornerà? Probabilmente lo sanno anche loro. Ma l’alternativa era scegliere chi, alle loro domande inevase di benessere, rispondeva «it’s the economy, stupid!», o sua moglie. Per questo hanno votato per Trump.
Ancora Vance, ricorda che suo nonno aveva sempre votato per i Democratici. Tranne nel 1984, quando, cito dal suo racconto, «Reagan ottenne la più grande vittoria elettorale della storia americana contemporanea. “Reagan non mi è mai piaciuto”, mi disse tempo dopo il nonno. “Ma odiavo quel Mondale”. L’oppositore di Reagan, un democratico colto e raffinato del Nord, era l’antitesi culturale di mio nonno». Certo, il libro di Vance è uscito che mancava troppo poco alle elezioni per cambiare in corsa; ma possibile che nessuno fra i competenti democratici laureati nelle prestigiose università della Ivy League si sia accorto che rispondere con l’arroganza dei primi della classe a chi vedeva il mondo franargli sotto i piedi non poteva che aggravare quel sentimento di distacco e il relativo allontanamento elettorale? Eppure, dare risposte adeguate alle richieste della società moderna dicevano fosse il loro mestiere.
Prima che qualcuno inizi con la retorica dell’impegno, delle capacità individuali, della «meritocrazia» come antidoto e via d’uscita dalle condizioni che nelle sue memorie racconta, proprio partendo dalla personale storia dell’autore e dal suo essersi poi laureato in legge in una delle Ancient Eight, Yale, e aver trovato lavoro nella competitiva Silicon Valley, voglio citarvi quello che Vance stesso scrive di sé nelle primissime righe dell’introduzione al libro che vi consiglio di leggere per intero: «Io ero uno di quei ragazzi dal destino segnato. Ho rischiato di farmi espellere dal liceo. Ho rischiato di cedere all’ira e al risentimento che covavano in tutti coloro che avevo intorno. Oggi la gente guarda me, il mio lavoro e i miei prestigiosi titoli accademici, e dà per scontato che io sia una sorta di genio, perché solo un tipo veramente straordinario avrebbe potuto arrivare a simili traguardi. Con tutto il rispetto che devo ai miei estimatori, penso che questa teoria sia una gran stronzata. Quali che siano i miei talenti, non li ho buttati via solo perché alcune persone particolarmente caritatevoli sono venute in mio soccorso».
Ecco, vediamo di non aggiungerne altre. Di stronzate, intendo.