Se c’è una colpa, è soprattutto nostra

Ho vissuto per qualche giorno dove «gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto», e mi è sfuggito il dibattito sul senso dei titoli universitari per un incarico politico di governo. Colpa mia, ovviamente. Come, d’altronde, è colpa mia, meglio, nostra, anche quella che ha portato il Paese a giungere a questo stato di cose, dove Di Maio e Salvini decidono dei destini nazionali. Se questa è una colpa, s’intende, e se davvero, come diciamo, tutto ciò è male. Ma tento di andare con ordine.

Provando a recuperare ordinatamente, confesso una certa fatica nell’appassionarmi al tema dei crediti accademici di Conte; se non altro perché, pensando ai precedenti vicini e lontani, mi sfuggono le ragioni dalla parte dei critici odierni. Personalmente, all’inesperienza e alla supponenza dei migliori perdenti delle ultime elezioni non affiderei nemmeno un triciclo rotto e a un governo con dentro la Lega farò opposizione in tutti i modi in cui sarò capace, cercando, per come riuscirò, di impedire che realizzino quanto hanno minacciato in campagna elettorale. Ma proprio noi (uso la prima persona perché quello di cui parlo fu fatto pure in forza del mio voto e nell’ottica poco prima chiarita) che abbiamo già affidato le esclusive cure della carta fondante della repubblica a chi per la prima volta delle sue istituzioni varcava la soglia senza paragonabili analisi curriculari, come possiamo ora puntare il dito? Inoltre, quando identici argomenti venivano sollevati sui titolari ancora in carica dei dicasteri di Istruzione, Pubblica Amministrazione e Lavoro, veniva risposto – e non senza motivo, va detto – che nella nomina di un ministro contano le questioni della politica, non l’elenco delle competenze. Più di tutto, è la spocchia che traspare nell’approccio alla discussione quella che, a mio avviso, è la nostra maggiore responsabilità o colpa (se di colpa si può parlare, dicevo, e nostra nel senso di parte, pur se da essa sempre più vengo disconosciuto, o almeno non riconosciuto; non che ci sia una particolare ragione per cui si debba fare altrimenti, d’altronde).

L’inesperienza di Fico, l’inadeguatezza di Di Maio, la superficialità con cui questa nuova squadra di rappresentanti istituzionali agisce destano giustamente preoccupazione in chi si occupa di commentare la scena pubblica, per quanto non capisce perché gli stessi sorridessero benevoli delle guasconate di quanti fino a poco tempo fa passeggiavano nelle medesime stanze. Rischia, invece, di divenire insopportabile il sarcasmo con cui le si indica al pubblico ludibrio quando a farlo sono quelli che, a parole, dicono di voler stare dalla parte dei più deboli, degli esclusi, dei mai sedutisi dalla parte della ragione, né da quella del torto, del governo o dell’opposizione, perché sempre rimasti in piedi, sullo sfondo, quando non direttamente fuori dalla porta.

È stata emblematica, a inizio legislatura, la diversa sorte occorsa ai presidenti delle due camere. A me lascia perplesso di più il fatto che per la seconda carica dello Stato si sia scelta una senatrice che, da rappresentante della nazione, pochi anni fa esprimeva tutto il suo senso istituzionale manifestando per il proprio capo politico e contro dei magistrati rei di star istruendo un processo a loro non gradito. Invece, a essere messi sotto la lente della riprovazione, sono state le passate esperienze lavorative del suo parigrado di Montecitorio. Perché si sa, fare un sit-in perché un giudice non si permetta di giudicare un potente portando elegantemente due cognomi è ben altra cosa che cercare di sopravvivere con uno solo e nemmeno noto fra un impiego in un call center e le bibite da vendere allo stadio.

E premesso che ho sorriso di consiglieri provinciali con statura politica superiore ai vari Di Maio, Fico e compagnia stellata (devo però notare come raramente simili caustici giudizi vengano dagli stessi ambienti indirizzati a non dissimili competenti colleghi, diversi, nell’eloquio, solo per cadenze e accenti), avverto facilmente come prendendoli in giro per il curriculum si faccia la figura del latifondista che stigmatizzava la presenza del cafone Di Vittorio in parlamento; un errore marchiano, se fatto da sinistra.

No, non sto dicendo che loro siano novelli Di Vittorio, ma che chi, spocchiosamente, deride il loro esser stati telefonisti precari o venditori di bevande fra tribune e curve prima di arrivare in Parlamento rischia di apparire come il barone Rubino, che nella bella scena del film di Alberto Negrin diventa l’epitome del padrone che ha in spregio democrazia e socialismo, probabilmente la prima molto più che il secondo.

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