L’operaio voleva il figlio dottore

In questo 2018 sono tanti gli anniversari a cifra tonda: i quarant’anni dal rapimento e dall’uccisione di Moro, gli ottanta dalle leggi razziali (per ricordare i quali credo si sia pensato di far rientrare in Italia i resti del sovrano che le promulgò), i settanta dalla sconfitta del Fronte democratico popolare e l’affermazione, poi duratura, della Dc, e i cinquanta dalla contestazione giovanile, studentesca e operaia, che infiammarono l’occidente, dall’americana Berkeley alla capitolina Valle Giulia, passando per le strade di Parigi e persino nelle piazze di «Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni», come recita il sottotitolo del bel saggio di Guido Crainz, Il sessantotto sequestrato, Donzelli editore. Se mi è permesso, vorrei un po’ soffermarmi sull’oggi alla luce di quella tradizione.

In tanti commenti al voto dello scorso marzo mi è capitato di leggere quale spiegazione dell’esito il tema, volendo estremizzare semplificando, della “società del rancore”. Ecco, in parte, se quella tesi è lecito prendere per fondata, una delle chiavi di lettura di questo livore diffuso potrebbe affondare le radici proprio in quella stagione che del maggio francese fece vessillo. Se c’è stata una colonna sonora di quei giorni qui da noi, sicuramente essa ha suonato sulle note di Contessa, di Paolo Pietrangeli. Ma fra le cose interessanti di quel testo, a me l’attenzione cade su uno dei dialoghi fra i due ricchi, quando, rivolta alla nobile e per stigmatizzare il presunto ambiente di «libero amore», la voce di contraltare al canto dei lavoratori chiosa: «Del resto, mia cara, di che si stupisce?/ Anche l’operaio vuole il figlio dottore». Un po’ burla dei costumi borghesi, un po’ verità non detta delle aspirazioni operaie, quei due versi, a parer mio, colgono un tratto spesso emerso nelle spiegazioni di quell’allora date dopo da protagonisti, ma pure non assenti nei commentatori dell’epoca.

Si ricorderà facilmente Il Pci ai giovani, di Pier Paolo Pasolini, che proprio sugli scontri di Valle Giulia, nel giugno di quello stesso ’68, scriveva rivolto agli studenti protagonisti: «Avete facce di figli di papà./ Vi odio come odio i vostri papà./ Buona razza non mente./ Avete lo stesso occhio cattivo./ Siete pavidi, incerti, disperati/ (benissimo!) ma sapete anche come essere/ prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:/ prerogative piccolo-borghesi, cari».

Se Pasolini era indulgente con gli operai, seppur con la precisazione del loro essere indietro rispetto ai tempi che si erano in quel mentre messisi a correre, un comunista teorico dell’operaismo, e decisamente critico col movimento studentesco, come Mario Tronti, in un’intervista del 2014, quasi cinicamente, spiegava: «Gli operai volevano l’aumento salariale, mica la rivoluzione». Già, l’aumento di stipendio e il figlio dottore, borghese, sistemato. Ambizione legittima, ci mancherebbe, ma capace di smontare quel racconto su una classe operaia con una coscienza di sé tale da immaginarsi come universale e assoluta e soggetta al rischio di dover scontare una realtà diversa dall’idea.  Non per tutti è stato così, e non poteva essere altrimenti, non tutti hanno preso bene questa impossibilità di progresso individuale continuo e infinito. E molti, pure per questo, si sono arrabbiati.

Una rabbia, un odio, un rancore, che, oltre che dalla considerazione della diversa situazione sociale ed economica che quanti la provano vivono rispetto al suo oggetto, nascono più tristemente da un’aspettativa tradita, dalla promessa non realizzatasi del mito dell’arricchimento e, appunto, della conquista dello stile di vita, e di consumo, borghese. Lo si fosse capito allora il punto di non arrivo delle aspirazioni volutamente incoraggiate, si sarebbe forse riso meno delle intemerate pasoliniane contro la pubblicità e il sistema di cui si faceva veicolo.

Oggi, invece, qui siamo. Sedotti da un mito capace di far leva sull’apparato dei desideri, di generare passioni e promesse a cui non sempre, anzi, quasi mai, dà seguito, infatuazioni persino durature. E come tale, ovviamente, in grado di deludere. Non prima, però, di aver spostato su di altro le ire per l’oggetto desiderato e perduto ancor prima d’esser riusciti a possederlo, sull’altro competitor che, ci raccontano, ce ne ha precluso la conquista: il vicino di casa, il collega di lavoro, il compagno di scuola, il rappresentante della “casta”, il tecnico, il professore, il lavoratore migrante, il cinese laborioso, il sindacato, il sistema dei partiti, il burocrate, eccetera, eccetera, eccetera.

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