Solo di recente mi è capitato di passare per via Fani. Non avevo mai visto la lapide e nemmeno quando ci sono passato è stato con l’intenzione di vederla; è capitato, e il fatto che il motivo del percorrere quella strada in salita verso via Trionfale non fosse di certo ameno avrà probabilmente aggiunto un supplemento di mestizia nello scoprirla così, per caso, comparire alla mia sinistra. Sia come sia, l’ho guardata di sfuggita e, come non poteva non essere, ho immaginato all’incrocio e sulle strisce la 130 blu, l’Alfetta bianca e quella 128 Panorama, anch’essa chiara e con finta targa diplomatica, usata per bloccare la piccola carovana.
Eppure, voglio provare a ricordare il Moro fuori dall’iconografia drammatica del suo rapimento. Esattamente quarant’anni fa, all’ora in cui pubblico questo post (le 5,55, se proprio ci tenete a saperlo), il presidente della Dc era ancora vivo e libero. Ed era lo stesso uomo che, meno di dieci anni prima, aveva cominciato ad avvertire nei sintomi di quello scollamento che si manifestava nelle piazze una responsabilità piena di chi della rappresentanza del Paese aveva il preciso mandato. Spiegava infatti lo statista di Maglie, durante un intervento al Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana nel gennaio del 1969: «Parliamo, giustamente preoccupati, di distacco tra società civile e società politica e riscontriamo una certa crisi dei partiti, una loro minore autorità, una meno spiccata attitudine a risolvere, su basi di comprensione, di consenso e di fiducia, i problemi della vita nazionale. Ma, a fondamento di questa insufficiente presenza dei partiti, non c’è forse la incapacità di utilizzare anche per noi, classe politica, la coscienza critica e la forza di volontà della base democratica?». Quanto è attuale? Quanto è vivo quel pensiero e quella visione?
Moro era un innovatore. L’immagine che il racconto semplificatorio rende dello studioso e del politico induce a credere il contrario, e il suo stile tutt’altro che brillante, in un’epoca che già allora si votava all’immagine più che alla sostanza, contribuisce a sviare. Ma egli era per definire nuovi equilibri e diverse formule, sociali, culturali e poi, e di conseguenza, politiche. Sempre in occasione di un evento ufficiale della Dc, l’XI congresso nell’estate dello stesso 1969, spiegò: «dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose ho muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime».
Il compromesso storico a cui lui guardava era parte di questa innovazione: fu seppellito sotto il rigido marmo del governo istituzionale che invece nacque il giorno di quel rapimento, e non se ne parlò più, se non come progetto di unione di classi dirigenti e ceti politici, ben lontano dalla sua idea di dialogo e avvicinamento delle masse popolari che sostenevano i principali attori della scena politica di quegli anni.
Parte, però, non tutta l’innovazione a cui pensava. Perché la sua idea era un mondo differente da quello che c’era. Pure economicamente diverso. Una certa formazione forse mi induce a leggere nei processi economici lo svolgimento della storia e mi fa pensare che i rapporti di forza i quei campi determinino, o comunque continuamente tentino di farlo, gli indirizzi che la politica prende, persino quelli a cui la verità giudiziaria (quella storica è altro argomento) dà volti, nomi e pene. Allora mi chiedo, con le parole di Cesare Garboli su l’Unità del 7 giugno 1980, «se non sia il caso d’istituire una relazione, e di riflettere sul fatto che l’economia prevista dal compromesso sarebbe stata verosimilmente “povera” e “stabile”, secondo i tecnici, o, come dicono i nostri più grandi finanzieri, noiosa come un paese di oltrecortina».
In questi giorni ne sentiremo tante di cose su Moro; d’altronde, le ricorrenze questo sono, e quanto vado scrivendo non si sottrae alla teoria. Alcune voglio approfondirle meglio. Per un po’ di giorni non scriverò, e mi dedicherò alla lettura di testi su un paio di queste e su altre ancora che da tempo rimando. Perché stiamo correndo tutti troppo, e quando si corre, la polvere che alziamo raramente aiuta a vedere meglio ciò che si ha intorno.
A presto, se avrete ancora il piacere e la voglia di seguirmi.