Per questo sono a favore dei sistemi proporzionali

Mi è già capitato di raccontare questo aneddoto. Qualche anno fa, nel paese in cui sono nato e cresciuto, durante una chiacchierata con un amico, lui lamentava il fatto che lungo il corso e nelle piazze, in fila alle poste o in attesa dal medico, l’ottanta per cento, se non oltre, di quelli con cui gli capitava di parlare si dichiaravano contrari all’azione dell’amministrazione comunale. «È incredibile: se ci sono dieci persone in una stanza, otto parlano male del sindaco. E il bello – aggiungeva – è che se tu glielo chiedi, ti rispondono di non averlo votato. Tutti, ognuno di coloro che ne parla male. Come se a votarlo fossero stati i due, o forse meno, che ne condividono le scelte». «Già, è curioso. Ma il fatto – ricordo d’aver risposto – è che le cose stanno proprio così, nelle percentuali e con i rapporti che hai detto». E stavano così per una ragione numerica banale. Quando nel 2012 a Stigliano, un comune al di sotto dei quindicimila abitanti e pertanto con un sistema elettorale fortemente maggioritario, si è votato per il rinnovo dell’amministrazione cittadina, a competere fra di loro c’erano 4 liste. Quella che vinse ebbe il 28,06%, e le altre rispettivamente il 27,37, il 22,45 e il 22,10. Se a ciò si aggiunge la considerazione che a votare furono il 66,06% degli aventi diritto (risultato di tutto rispetto, se si pensa alle attuali tendenze), il risultato della lista vincente, realmente, corrisponde a un consenso pari al 18,54 per cento degli aventi diritto al voto; l’uno o i due cittadini su dieci che si incontrano quando si va a far spesa, all’ufficio postale, dal medico.

In fondo, non è tanto diverso da quello che abbiamo scoperto con le recenti elezioni. Pur potendo contare su una maggioranza parlamentare notevole, assoluta in una camera e relativa nell’altra, il Pd si è scoperto minoranza nell’elettorato. Il fatto, però, è che era così pure prima. Quella maggioranza, infatti, era tale solo in virtù del moltiplicatore dell’Italicum; numeri alla mano, invece, il partito al governo dal 2013, alle elezioni, aveva preso solo un quarto dei voti, mentre il 75% aveva votato altro. Francesco De Sanctis (citato da Pietro Secchia in un intervento al Senato il 17 dicembre del 1968), diceva: «La maggioranza legale è essa che deve governare, ma perché un Governo sia accettato dalla coscienza pubblica si richiede che la maggioranza legale sia insieme maggioranza reale nel Paese, altrimenti del sistema parlamentare c’è soltanto l’apparenza». E non è il migliore dei viatici possibili per un sistema democratico che sull’accettazione e la condivisione delle scelte deve basarsi.

Ecco perché io sono un inguaribile proporzionalista. Con un dubbio, però, datomi dalla mia natura cafona. Se il governo di una nazione è percepito come il risultato di accordi e numeri presi e formatisi al di sopra delle teste dei cittadini, in un certo qual modo è più facile tollerarne le decisioni anche quando non piacciano, per la semplice ragione che si può nutrire la speranza di un’alternativa nella considerazione della propria alterità. Se, al contrario, lo si legge come il frutto effettivo delle personali scelte, allora la faccenda si complica, e alla frustrazione di non vedersi riconosciuti e considerati dal sistema che sarebbe chiamato a rappresentarci si aggiunge la disperazione del sapersi artefici della propria esclusione.

Una condizione ai limiti dell’estraneità cantata nel Winterreise, ma molto meno romantica.

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