Se non c’è un’alternativa possibile, perché partecipare?

«Il punto è che meritereste di trovare sulla scheda elettorale delle plausibili opzioni alternative al Partito Democratico: meritereste di avere la possibilità di scegliere un’altra strada, non fosse altro che per il sano principio dell’alternanza, senza per questo temere tragedie. Eppure – guardiamoci negli occhi – sapete anche voi che oggi l’unico governo da paese normale che queste elezioni possano esprimere, l’unica classe dirigente da paese normale che questo paese possieda, sia in questo momento quella del Partito Democratico e dei suoi alleati. Gentiloni, Padoan, Bonino, Calenda, Bellanova, Della Vedova, Boschi, Scalfarotto, Minniti, Delrio, Franceschini, eccetera. Non è la classe dirigente migliore possibile. Orrore, sto allora forse dicendo che è la meno peggio? No, magari. Sto dicendo che è l’unica».

La visione da cui muove il vicedirettore de Il Post nell’articolo che ho appena citato non è diversa da quella di molti che in questo giorni sento chiamare a un’assunzione di responsabilità collettiva, e sostenere con decisione l’unico, a loro modo di vedere, governo possibile per il Paese: quello del Pd e alleati. In effetti, è uno sguardo triste e pessimista sul destino dell’Italia, che gli stessi chiedono di affidare a una classe dirigente non perché sia adeguata al ruolo, ma perché non ne vedono un’altra. Insomma, come direbbero dalle mie parti, «non c’erano persone da bene, fecero nonno sindaco». E sue queste premesse non entusiasmanti, invocano un generale «prendere parte» per evitare l’arrivo dei barbari. Ecco, allora chiariamoci, e come invita a fare lo stesso Francesco Costa, «guardiamoci negli occhi»: voi, della partecipazione degli altri, non sapete che farvene. Voi non volete che si prenda parte, che sia parte di un progetto condiviso. No, a voi interessa che si voti la vostra parte, quella in cui voi o i vostri beniamini siete contemplati; per il resto, che ci si tolga di mezzo e si lasci indisturbati i manovratori. Ma è proprio su quel terreno che state scontando i curiosi esiti d’una particolare eterogenesi dei fini.

Voi cercate di parlare e veicolare un’idea di politica che muova, appunto, dalla responsabilizzazione comune dei partecipanti e che si affidi alle competenze dei più indicati per la messa in atto delle idee condivise. Però, da un lato tradite quel messaggio di partecipazione dimostrando tutta l’insofferenza verso quelli che, realmente, intendono esser parte dei meccanismi che conducono a definire quello che si decide e si sceglie, dall’altro, affossate il mito della diversità della qualità del personale politico nella scelta di élites come quelle di cui diceva lo stesso Costa, o di altre selezionate attraverso l’unica lente della fedeltà al leader di turno, pronta a esser scambiata con quella verso il prossimo come già lo è stata con i precedenti.

Ma alla fine, se Berlusconi può suscitare il voto sull’onda del «ghe pensi mi» e Di Maio confondere la propria inconsistenza dietro i fumi e gli alambicchi della democrazia diretta, perché entrambi da quei discorsi sempre han mosso e quelle sono le risposte che il loro elettorato cerca e dimostra di apprezzare, a voi, cari amici del voto responsabile, la strada del bluff è preclusa. Perché diverso è il discorso politico che fate mentre lo tentate, e perché, nel farlo, cercate di intercettare e convincere a venire sulle vostre posizioni quanti quel raggiro è precisamente quello che da anni vi rimproverano.

Di sicuro, come spesso accade nelle cose della politica che mi è capitato di commentare in questi ultimi anni, voi siete nel giusto, e io continuo a vivere nell’errore. Eppure, mi chiedo, anche se siete davvero l’unica alternativa possibile, come voi stessi dite, anzi, soprattutto in questo caso, a che serve partecipare?

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