Se davvero la globalizzazione finisse d’un colpo, potremmo non saper cosa metterci

Cercata o meno che sia, la coincidenza per cui, nei giorni dell’appuntamento annuale di Davos, dove un Clinton folgorato sulla terza via del mercato di libero scambio aprì le danze della globalizzazione politica a guida statunitense, gli unici comunisti rimasti al mondo difendano il valore intrinseco del Wto e il successore alla Casa Bianca lo metta radicalmente in discussione, con dazi e minacce protezionistiche, è di sicuro interessante e curiosa. Detto ciò, potrebbe non essere da ridere lo scenario in cui ci si muove.

Se col mio titolo ho lasciato correre la suggestione di un’ipotetica accolita di radical chic pronti a contestare la globalizzazione quanto spaventarsi della sua possibile fine, la fermo subito: non parlavo dei figli della sinistra da quartieri eleganti. Quelli, cosa, e dove, mettersi lo sanno sempre. Parlavo di tutti gli altri, quanti nei prodotti a basso costo e nei servizi smart hanno trovato una – ingannevole – risposta ai loro redditi bassi e fermi. Perché se si bloccasse ora e di colpo quel processo (in un’ipotesi e con una tempistica francamente impensabili, va detto) a mancare sarebbero le cose appannaggio delle fasce medio/basse della popolazione. Per giunta, il tutto non in ragione di una maggiore attenzione alle esigenze del mondo e delle genti che lo abitano, come chiedeva all’inizio dell’unificazione planetaria del mercato quel movimento a cui un potere non diverso da quello che oggi ne scopre i limiti spezzò e le reni sul nascere, e non solo figurativamente, ma di una mera tutela delle disuguaglianze in virtù di quella stessa globalizzazione determinatesi.

Mancando del tutto l’afflato da moto contestatario, dato che al massimo, se di cambiamento radicale di prospettiva si può parlare, lo si deve fare nei termini della gramsciana tesi della «rivoluzione passiva», l’idea che ora Trump incarna è l’esatto contrario di quello per cui, dalle manifestazioni del ’99 a Seattle in poi, il movimento altromondista s’è battuto. Seppure, uno degli obiettivi immediati, porre un freno al regime di libero scambio, appunto, potrebbe coincidere.

In fin dei conti, il presidente Usa non fa altro che provare a tradurre uno dei suoi slogan, quell’America first che tanto deve aver convinto il suo elettorato, a giudicare dal verdetto delle urne. E quel motto non chiedeva affatto un diverso mondo possibile, fatto di rispetto fra gli uomini, di tutela della natura, di giustizia per tutti. Al contrario; la sua è la volontà di riaffermare per la propria parte, e credo che anche «razza» potrebbe esser termine adeguato alla questione da quel punto di vista, la supremazia su tutto il resto.

Con buona pace delle lavatrici che i suoi elettori non potranno più permettersi, ovviamente.

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