Ma lo chiamate «rancore» perché «odio di classe» vi spaventa?

Ci dice il Censis nel suo ultimo rapporto che  per l’87,3% degli appartenenti alle fasce di popolazione più in difficoltà è difficile risalire nella scala sociale, percentuale pari a quella che pensano la stessa cosa nel ceto medio e non di molto superire a quella, il 71,4%, che, dalle classi benestanti, traggono la medesima conclusione. Tutti, poi, ritengono che sia estremamente facile scivolare in basso nella scala sociale, compreso il 62,1% dei più abbienti.

Difronte a tutto questo, dall’analisi del centro studi guidato da Giuseppe De Rita emerge che il Paese, considerato nella sua anonima totalità, ha ricominciato a crescere, ma che «non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore». «Rancore» è sempre più parola magica, taumaturgica, persino tranquillizzante per i ceti abbienti e per le élites. Però, secondo me è solo una volontà esorcizzante quella che spinge a usarla in luogo di una definizione che, seguendo un pensiero di Edoardo Sanguineti,  potrebbe essere più giusta: «odio di classe».

Magari spaventa, certo, però, insomma, rende meglio l’idea. Quelli che stanno sotto e non ce la fanno, quelli per cui la crisi non è mai finita perché forse nemmeno è iniziata, nel senso che prima si stava un po’ come si sta oggi, quelli che vedono chiudersi gli spiragli per una vita migliore di quella che vivono, semplicemente, «odiano» quelli che ce la fanno perché sono nati nel posto giusto, quelli che migliorano le proprie condizioni già migliori delle loro, quelli che assumono il figlio nello stesso ente che nei suoi rapporti quasi lascia trasparire stupore per quella rabbia che non sa spiegarsi, mentre legge un passato, registra un presente e stima un futuro  per gli altri fatto di precarietà povera.

Un odio, poi, che inconsapevolmente le classi dirigenti contribuiscono ad alimentare con il loro stesso racconto, sottolineando una ripresa e un benessere che cresce in termini di ricchezza e consumi da cui tanta parte della popolazione è però esclusa. E questa, ascoltando quelle canzoni cantare, sente crescere ancor di più l’astio verso gli inclusi fra i beneficiari di quello che l’istituto di De Rita chiama appunto «il dividendo sociale della ripresa economica».

Ma non sono un sociologo; per questo, forse, preferisco le parole d’un poeta.

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2 risposte a Ma lo chiamate «rancore» perché «odio di classe» vi spaventa?

  1. Italiote scrive:

    Apprendo solo adesso che qualificare uno stato d’animo come rancore o risentimento (l’opposto della infraumanizzazione) potrebbe servire a tranquillizzare taluni mostrando correlazioni sulla base dei livelli di reddito.

    Nell’impossibilità di appurarne speditamente la veridicità mi sovvengono intanto gli effetti che il sentimento di appartenenza ad un gruppo potrebbero avere sull’etica o sulla percezione dell’ingroup o dell’outgroup.

    Circa l’uso politico dell’odio non mi sovviene che quanto segue non sia la prima volta che economisti abbiano avuto da ridire:

    «This paper develops a model of the interaction between the supply of hate-creating stories from politicians and the willingness of voters to listen to hatred. Hatred is fostered with stories of an out-group’s crimes, but the impact of these stories comes from repetition not truth. Hate-creating stories are supplied by politicians when such actions help to discredit opponents whose policies benefit an out-group. Egalitarians foment hatred against rich minorities; opponents of re-distribution build hatred against poor minorities. Hatred relies on people accepting, rather than investigating, hate-creating stories. Hatred declines when there is private incentive to learn the truth. Increased economic interactions with a minority group may provide that incentive.

    This framework is used to illuminate the evolution of anti-Black hatred in the United States South, episodes of anti-Semitism in Europe, and the recent surge of anti-Americanism in the Arab world.»— http://www.nber.org/papers/w9171

    Sembra che alcune generalizzazioni sull’uso politico dell’odio si possano applicare indistintamente -mutatis mutandis-a fascisti e no:

    Tale economista ritiene che l’odio diminuisca quando c’è un incentivo personale a conoscere la verità e prospetta che l’aumento di interazioni non disfunzionali (per es. economiche) con gruppi minoritari possa fornire incentivi a tal fine.

    PS: Se si partisse da tale premessa potrebbe anche ravvisarsi nell’astensionismo una tra le occasioni mancate (avendo la Costituzione previsto, a fondamento di questa Repubblica, l’istituzionalizzazione di un “metodo democratico” volto alla risoluzione dei “conflitti sociali”)

    https://it.wikipedia.org/wiki/Conflitto_(sociologia)#La_gestione_costruttiva_dei_conflitti

  2. Italiote scrive:

    errata:
    […]nonmi sovviene che quanto segue non […]

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