Sperando che non sia il sintomo d’una malattia autoimmune

Di Maio, Renzi, Salvini; divertitevi a considerarli candidati premier, se vi va. Sempre, in Italia non ha senso parlare di candidati diretti a una carica conferita dal presidente della Repubblica e sottoposta alla fiducia delle due Camere. Ancora di più, ciò è vero oggi, dato che con il sistema di voto che c’è, difficilmente qualcuno di quei tre può realisticamente aspirare di giungere per via elettorale al ruolo a cui dice di prepararsi. Ecco perché non mi appassiono all’argomento.

C’è però una preoccupazione che non riesco a tener lontana nell’approcciarmi alla questione attraverso i giornali o i programmi televisivi: la statura dei leader in campo. Insomma, è credibile che uno dei tre, Di Maio, Renzi o Salvini, stiano pensando a ricoprire la carica di presidente del Consiglio per la semplice ragione che tutti e tre, politicamente parlando, hanno fatto le medesime scuole: nessuna. E siccome uno dei tre quel ruolo l’ha già ricoperto, non si vede perché, per gli altri due, si dovrebbero evocare i canoni dell’impossibilità. La storia, infatti, fa acqua dall’inizio. Ed è, esplicitando il mio timore, la manifestazione del carattere fortemente ideologico del giudizio che tutti noi condividiamo sulla bontà assoluta e permanentemente assunta dei processi democratici. Provo a dirlo meglio; se la democrazia diventa la scelta di uno qualsiasi, di «uno di noi», si diceva un tempo, a qualsivoglia carica, allora è la fine dei possibili discorsi che le si possono fare intorno. O almeno di quelli che posso farci sopra io, che di avere «uno come me» fra gli eletti non ho alcuna voglia, avendo l’ambizione di poterne eleggere uno migliore, ché altrimenti sarei buono pure io, ed evidentemente non è questo il caso.

Le rappresentanze che questo Paese sta esprimendo negli ultimi anni hanno il pregio di presentarsi per quello che sono: banali. Debbo, allo stesso tempo, conceder loro il beneficio del dubbio, ma nell’esplicitarlo si rischia di dipingere con tinte ancor più scure il quadro che si va definendo. Provo dunque a farlo con le parole di Cesare Garboli, di un suo articolo «impietoso ma non spietato», quale egli stesso più tardi ebbe a definirlo: «Molte cose si possono pensare e immaginare intorno al nostro Parlamento e ai suoi attuali e irreducibili membri. C’è chi lo ha definito una tetra associazione; e chi lo dice un terza liceo dove si trova di tutto: la studentessa sussiegosa che si crede granduchessa di tutte le Russie; il giovane appassionato di storia del Risorgimento; il buffone che fa casino sui banchi durante la ricreazione per difendere i diritti dei compagni e poi fa la spia al preside, ecc. ecc. Terribile sarebbe se nessuna di queste ipotesi fosse vera. Ce n’è infatti una peggiore. E se questi impagabili rappresentanti del nostro Paese fossero gente sincera? Un po’ ribalda ma non troppo? Gente che non sa niente di sé, che non ha nessuna idea di se stessa? Gente ottusa e stordita da una trentennale, manicomiale coabitazione col privilegio e con la politica? Che mestiere potrebbe fare tutta questa gente? Dove metterla? Come sostituirla? Non è un problema da poco, essere rappresentati da chi non c’è».

Se così fosse, quale ipotesi di voto ci salverebbe dal tedioso perpetuarsi di tal fatte élites?

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