Prima le previsioni di Confindustria, poi gli scenari di Moody’s, infine le rilevazioni dell’Istat. Negli scorsi giorni, abbiamo avuto un profluvio di annunci ottimisti che assicuravano il bel tempo a venire sui cieli dell’economia italiana anche quando, come nel caso dei dati sulla disoccupazione, pareva rannuvolarsi un po’ il panorama, prontamente spiegate, le nuvole, come l’effetto del ritorno a cercar lavoro degli inattivi. Evviva!
No, dico veramente; se l’economia va così bene come la lunga teoria di numeri sciorinata di recente dice, io non posso che esserne felice. E mi risparmio pure la battuta su quelli che prevedevano tragedie se non avessero vinto le loro idee costituzionali, ché l’importante è il risultato. Anzi, i risultati: quello del referendum di allora e questi di occupazione e crescita oggi. Bene, una sola domanda: perché allora siamo così arrabbiati? Perché si avverte tanto malessere? Perché, al cospetto di tali traguardi, e lungi da me metterli in discussione o smentirli, non registriamo l’entusiasmo che ci aspetteremmo e non avvertiamo i tributi che i beneficiati dovrebbero riservare a chi li ha resi possibili, ai benefattori?
So che la demoscopia non dà valori indiscutibilmente tali, e infatti io non mi sto riferendo ad alcun sondaggio di opinione. Sto proprio dicendo che non capisco per quale motivo, se le cose vanno così bene, tutti i giorni incontriamo gente arrabbiata con le istituzioni e le donne e gli uomini del potere, e preoccupata per il futuro, il suo o quello dei propri cari.
Non riesco a capire. Sempreché non si mettano in discussione quelle verità numeriche, ovvio.