Della qualità dirigente

Nel suo editoriale di mercoledì scorso sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia, parlando delle indennità tributate (ché guadagnate non sarebbe termine appropriato, visto il ragionamento da lui lì svolto) agli esponenti delle varie “caste” – definizione orribile, introdotta nel dibattito pubblico proprio da due giornalisti di quel quotidiano – sosteneva in pratica che, sceso così com’è il livello dei protagonisti e dei rappresentanti, qualsiasi discorso sulla commisurazione fra l’emolumento e il suo percipiente sarebbe arduo, quando non totalmente vano.

Scriveva lo storico e firma di punta di via Solferino che i candidati che i partiti scelgono sono «perlopiù uomini e donne di nessun particolare prestigio e di nessuna apprezzabile riconoscibilità personale, designati unicamente in base alla loro “vicinanza”, ovvero fedeltà, ai vertici incaricati di decidere. […] Sicché oggi ogni “villan rifatto”, purché sia nelle grazie di un “capo”, può tranquillamente aspirare a divenire di primo acchito presidente di una Camera o di una Regione». A ciò, continuava Galli della Loggia, vanno sommati gli effetti di una legge elettorale che «in pratica ha impedito che gli elettori scegliessero davvero i propri deputati e senatori dal momento che in virtù di essa la composizione delle liste elettorali da parte delle segreterie dei partiti ha comportato di fatto, in tutti questi anni, l’elezione preconfezionata di decine e decine di insignificanti Pinco Pallini. È per questo che agli occhi dell’opinione pubblica la crisi dell’istituzione parlamentare ha preso la forma soprattutto del discredito irrimediabile dei suoi membri, del loro precipitare nella disistima generale, quando non addirittura (come si è visto in certi programmi televisivi) nel dileggio per la loro impreparazione e la loro crassa ignoranza. C’è da meravigliarsi, allora, se qualunque somma o beneficio erogati a simili persone vengano percepiti come un privilegio inammissibile? Se la loro sola esistenza autorizzi ogni discredito verso “la politica”?».

Parole nette, che me ne hanno fatte tornare alla mente altre, di un articolo «impietoso ma non spietato», quale il suo stesso autore più tardi ebbe a definirlo. Partendo dal drammatico epilogo delle vicende terrene di Raul Gardini e Gabriele Cagliari, entrambi coinvolti nell’affaire Enimont, e nel loro differente dipanarsi, un quarto di secolo fa, Cesare Garboli, ragionando proprio sul tema della qualità delle classi dirigenti nostrane, dava corso a un suo tragico dubbio: «Molte cose si possono pensare e immaginare intorno al nostro Parlamento e ai suoi attuali e irreducibili membri. C’è chi lo ha definito una tetra associazione; e chi lo dice un terza liceo dove si trova di tutto: la studentessa sussiegosa che si crede granduchessa di tutte le Russie; il giovane appassionato di storia del Risorgimento; il buffone che fa casino sui banchi durante la ricreazione per difendere i diritti dei compagni e poi fa la spia al preside, ecc. ecc. Terribile sarebbe se nessuna di queste ipotesi fosse vera. Ce n’è infatti una peggiore. E se questi impagabili rappresentanti del nostro Paese fossero gente sincera? Un po’ ribalda ma non troppo? Gente che non sa niente di sé, che non ha nessuna idea di se stessa? Gente ottusa e stordita da una trentennale, manicomiale coabitazione col privilegio e con la politica? Che mestiere potrebbe fare tutta questa gente? Dove metterla? Come sostituirla? Non è un problema da poco, essere rappresentati da chi non c’è».

Allora come oggi, questa splendida e sciagurata nazione sembra ferma sullo stesso problema. Antico, certo, che viene da molto lontano, ma che almeno un tempo si aveva l’accortezza di non esibire. Ora no, ormai la sfrontatezza che tradizioni più leggendarie che filologiche attribuivano alle varie “caste” al potere nei secoli passati, sublimato in quel «Dio ci ha dato il papato, godiamocelo» di Leone X (nato Giovanni di Lorenzo de’ Medici, a Firenze, curiosamente), o anche solo nei decenni trascorsi da poco, dove pure esistevano personaggi tronfi di un «misto di abnegazione e opportunismo», come Moro disse di Piccoli, e che se avessero avuto senso della misura si sarebbero sentiti ben più che appagati, per parafrasare un caustico Fortebraccio sempre a proposito del politico trentino, è esibita quale simbolo e cifra del personale “essere arrivati”.

Magari, che so, forse davvero aveva ragione Garboli: cosa mai potrebbero fare, se non quello che fanno? Di cos’altro potrebbero campare? È un problema con cui pur tocca fare i conti, a meno di non chiosare come Montanelli fece in un suo Controcorrente del 26 aprile 1981, a proposito del tentativo di avvicinamento a Craxi che Cicchitto provava nel congresso del Psi muovendo dalla sinistra del partito: «Sorpreso sul fatto e rimproverato da alcuni “compagni”, avrebbe risposto: “che volete, anch’io debbo vivere”. Francamente, non ne vediamo il perché».

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