Il Pd chiede politiche renziane. Negarlo è irrispettoso

Seppur non ancora col marchio dell’ufficialità, i dati sulla prima fase congressuale del Pd, quella riservata agli iscritti, dicono che di quanti nei seimila e più circoli si sono recati a votare, 141mila e oltre, quasi sette su dieci, hanno scelto Renzi, 52mila, un quarto, hanno preferito Orlando e appena 13mila, circa il sei per cento, hanno votato per Emiliano. Altre cifre diffuse dal comitato a sostegno del ministro della Giustizia parlano di un Renzi al 62%, con Orlando verso il 30 ed Emiliano all’8. Sostanzialmente, nulla muta. Anche il dibattito sull’affluenza è un po’ polemica inutile; secondo il comitato dell’ex premier, a votare si sono recati grosso modo il 60 per cento degli iscritti, mentre nel 2013 furono il 55, e che questi siano meno in totale non lo si scopre oggi. Inoltre, Renzi, in valore assoluto e in percentuale, in questa tornata riservata ai tesserati va molto meglio di quanto fece nel 2013, dove si fermò a 133mila voti e non raggiunse il 50%; se calo di partecipazione c’è stato, è in altre aree che va cercato.

Esaurita la scarna analisi dei numeri, a cui mani esperte faranno di certo dire qualsiasi cosa e che comunque sono tanti, segno indubbiamente positivo per quel partito e per quanti continuano a credere che la democrazia non sia riducibile a uno sterile e triste click, rimane il dato politico. E questo dice che il Pd, base e dirigenti, per i due terzi vuole Renzi e per il trenta per cento al massimo Orlando. Il candidato di maggiore quanto apparente rottura, Emiliano, supera infatti appena la soglia per accedere alle primarie aperte (risultato per i suoi non sottovalutabile, in una logica di mera definizione delle prossime liste elettorali). Quindi, il Pd tutto, al 90 se non 95%, vuole le politiche fatte in questi anni dal governo guidato dal suo segretario uscente, vuole l’abolizione dell’articolo 18, la facoltà per i presidi di scegliere gli insegnanti, le riforme istituzionali in senso governista, il decreto Minniti-Orlando (ché quell’Orlando è sempre lui) che ha fatto parlare due senatori dem di «diritto etnico», la negazione delle utenze di base e della residenza per gli occupanti senza titolo di immobili vuoti, i decreti per allontanare i poveri dal centro per il “decoro” delle città, le trivelle libere per mare e per terra, le grandi opere ovunque, eccetera, eccetera, eccetera. Perché questo è quello che hanno votato al loro congresso: per chi ha guidato e per chi ha fatto parte degli esecutivi che quelle cose, tutte quelle cose, hanno fatto. Il Pd tutto, base e dirigenti, al 90 se non 95%, vuole politiche di quel tipo; ignorarlo non è rispettoso. E io, che rispetto le opinioni degli altri mantenendo le mie, avversando quelle scelte non posso far altro che tenermi lontano dal votare, direttamente o per il tramite di alleanze, il partito che fortemente le chiede.

L’ozioso dibattito sulle ipotesi di centro sinistra nuovo o vecchio, rinnovato o da restaurare, sulle riedizioni dell’Ulivo o altri ritrovati della storia recente e passata da riattualizzare nel futuro prossimo venturo, per me si riduce tutto qui. Allearsi col Pd significa sostenere con esso, con la sua base e i suoi dirigenti, quel tipo di provvedimenti. Per questo ho scelto di andarmene due anni fa, per questo non posso andarci ora.

Era ed è sulle cose da fare il dissenso, non sulle persone che le facevano o le faranno.

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